Omelia del Patriarca ai funerali del diacono Gianfranco Fiorin (Venezia / Chiesa parrocchiale Madonna dell’Orto, 17 maggio 2019)
17-05-2019

Funerali del diacono Gianfranco Fiorin

(Venezia / Chiesa parrocchiale Madonna dell’Orto, 17 maggio 2019)

Omelia del Patriarca Francesco Moraglia 

 

 

Carissimi,

mi rivolgo a voi che avete voluto e volete bene al carissimo diacono Gianfranco e, in modo particolare, alla gentile e cara signora Barbara, sposa di Gianfranco, che per oltre 45 anni gli è stata accanto e che ha poi acconsentito alla sua scelta d’essere ordinato diacono (era il 10 gennaio 2009).

Esprimo cordiale vicinanza al figlio Giovanni, alle figlie Caterina, Elisabetta e Maddalena, agli adorati nipoti. Sono pure vicino ai diaconi, agli amici, ai membri del Consiglio di Amministrazione, ai collaboratori e dipendenti dell’Opera Santa Maria della Carità, di cui Gianfranco è stato per sei anni infaticabile e appassionato presidente.

Un saluto riconoscente a Sua Eccellenza Agathangelos, Vescovo ortodosso di Fanarion, direttore generale della Diaconia Apostolica della Chiesa Greca, e a don Massimo Angelelli, direttore nazionale dell’Ufficio per la Pastorale della Salute; grazie di aver voluto partecipare a questo momento di lutto per la Chiesa che è in Venezia.

Siamo qui – come avrebbe voluto Gianfranco – per pregare e la nostra preghiera è sorretta dalla certezza della fede, ossia dalla convinzione che la morte non distrugge la vita ma che, nel Signore Risorto, la vita ci è ridonata in pienezza.

La prima lettura e il Vangelo, appena proclamati, ci dicono che la nostra dimora definitiva non è quella terrena che oggi abitiamo ma quella verso la quale siamo incamminati; quella sarà la nostra abitazione definitiva.

Certo, con la morte muta, in modo radicale, il nostro rapporto con le persone. Non si dà più la relazione di vicinanza fisica e la relazione si fa spirituale, interiore, ma non per questo meno reale; quella persona, infatti, inizia a vivere in noi.

È un legame più intenso, ma certo non quello di prima a cui, da sempre, eravamo abituati e che si realizzava a partire dallo spazio e dal tempo. Non più una presenza fisica di contiguità e vicinanza nello spazio, che sperimentiamo quotidianamente, una presenza imperfetta che non è mai veramente compiuta ma che per noi è abituale, è spontanea, è facile.

La fede cristiana è, anzitutto, fede in Gesù risorto, vincitore della morte. La Chiesa è, innanzitutto, la comunità del Risorto e il battesimo è dato come immersione nella morte e risurrezione di Gesù.

La vita del cristiano – e, quindi, la nostra vita – inizia la mattina del giorno dopo il sabato di duemila anni fa, la mattina di Pasqua, quando le donne, recatesi di buon mattino al sepolcro, lo trovano vuoto e si sentono dire: “Perché cercate tra i morti colui che è vivo?” (Lc 24, 5).

Il cristianesimo e la vita del cristiano iniziano dinanzi al sepolcro vuoto di Gesù e la risurrezione è questa certezza: Lui è vivo, anzi è il Vivente! La risurrezione è un fatto accaduto e attestato da uomini e donne credibili; non è solo un vago desiderio, un puro auspicio.

Siamo davvero cristiani e realmente discepoli di Gesù se facciamo nostra tale certezza e se consideriamo che tale logica è la realtà verso cui tutti – nessuno escluso – siamo incamminati: giovani e anziani, uomini e donne, sani e malati, personaggi famosi e persone umili. Tutti, proprio tutti, siamo incamminati verso la risurrezione.

La prima lettura, tratta dalla lettera di san Paolo ai Filippesi, lo esprime in modo chiaro: “La nostra cittadinanza infatti è nei cieli e di là aspettiamo come salvatore il Signore Gesù Cristo, il quale trasfigurerà il nostro misero corpo per conformarlo al suo corpo glorioso, in virtù del potere che egli ha di sottomettere a sé tutte le cose” (Fil 3,20-21)

Tutti siamo stati duramente colpiti dalla morte così repentina di Gianfranco; siamo, però, anche convinti che, con la sua vita trasparente, onesta e scrupolosa nel portare avanti i compiti affidatigli, col profondo senso ecclesiale e soprattutto col senso di Dio che mostrava nelle parole e nei fatti, era certamente preparato all’incontro con Gesù, il Signore della vita e della morte.

Una morte inattesa per la sua modalità, anche se da qualche tempo si erano manifestate alcune avvisaglie di un affaticamento delle condizioni di salute a cui rispondeva con grande forza di volontà. Desiderava infatti portare avanti, fino in fondo, gli impegni legati al ministero diaconale e alla presidenza dell’Opera Santa Maria della Carità per cui, ogni giorno, dava il meglio di sé.

La prima lettura tratta da Filippesi dice, in modo semplice e chiaro, la verità della nostra situazione umana. Noi, se non vigiliamo, finiamo per considerare come momento definitivo quello che, in realtà, è solo un brevissimo spazio di tempo e questo vale pure nei casi delle vite più longeve. Infatti, la vita terrena – anche se si raggiungessero i cento anni – dinanzi all’eternità è solo un istantaneo batter di ciglia. Noi finiamo, così, per vivere il momento terreno dimenticando la vera realtà, quella che non verrà mai a mancare, ossia la vita futura, la vita eterna, quando saremo tutti per sempre col Signore Gesù.

L’apostolo Paolo ci avverte che la nostra cittadinanza è nei cieli e che la nostra vera abitazione, la nostra residenza definitiva, non è sulla terra; la parola “cielo” è un termine simbolico che indica un’altra realtà, Dio stesso.

Il corpo risorto (ossia tutta la nostra umanità) sarà – come dice la lettera ai Romani – permeato dallo Spirito e, per quanto possibile ad una creatura, nella risurrezione sarà pienamente intimo a Dio: “Paolo, servo di Cristo Gesù, apostolo per chiamata, scelto per annunciare il vangelo di Dio – che egli aveva promesso per mezzo dei suoi profeti nelle sacre Scritture e che riguarda il Figlio suo, nato dal seme di Davide secondo la carne, costituito Figlio di Dio con potenza, secondo lo Spirito di santità, in virtù della risurrezione dei morti, Gesù Cristo nostro Signore” (Rm 1, 1-4).

Noi uomini proveniamo da un seme umano fragile e soggetto alla morte ma, attraverso la potenza dello Spirito e grazie alla risurrezione dei morti del Signore Gesù, saremo anche noi costituiti in potenza.

La nostra vita non ci è tolta (preghiera del prefazio), anzi, nell’aldilà la vivremo in modo pieno; questa è la verità del nostro essere ed è bello ricordarcelo nella fede, guardando tutti all’unico nostro Signore Gesù, il Risorto. Tale riscoperta avviene nella fede e dobbiamo farla sempre più nostra, viverla “già” nella nostra esistenza terrena fragile, cangiante, fuggevole.

La consapevolezza – e se è vero che tutto passa – è che noi tutti siamo, giorno dopo giorno, incamminati verso la casa comune, la comune dimora del cielo. L’abitare nei cieli è un modo di dire che significa il nostro essere per sempre con Dio, là dove non ci saranno più pianto e separazioni; in particolare, non ci sarà più la morte.

Il Vangelo ci ha ricordato proprio come questo destino eterno, ossia il nostro abitare nell’aldilà, è la volontà stessa di Gesù. Richiamo, per questo, il Vangelo di Giovanni appena proclamato: al di là della sofferenza nel momento della morte, che per noi rimane un mistero, c’è l’amore provvidente di Dio che soltanto un giorno riusciremo a capire e ci sorprenderà per la sua sapienza e bontà.

Il Vangelo ci invita a pensare come quello che per noi rimane un avvenimento doloroso, la morte, corrisponda, in realtà, nel mistero, ad un progetto di Gesù con cui ha voluto chiamare a sé il nostro carissimo diacono Gianfranco.

“Padre, voglio che quelli che mi hai dato siano anch’essi con me dove sono io, perché contemplino la mia gloria, quella che tu mi hai dato; poiché mi hai amato prima della creazione del mondo. Padre giusto, il mondo non ti ha conosciuto, ma io ti ho conosciuto, e questi hanno conosciuto che tu mi hai mandato” (Gv 17,24-25).

Al diacono Gianfranco – servitore attento, umile, disponibile – va il nostro grazie; il suo senso ecclesiale lo portava ad essere sempre disponibile là dove la Chiesa lo mandava.

Come Patriarca, in questi suoi sette anni di lavoro in Curia, nel ministero diaconale, nella presidenza dell’Opera Santa Maria della Carità e in ogni altro frangente, ho sempre apprezzato la sua grande umanità, la sua solida fede, il suo equilibrio e il profondo senso ecclesiale che esprimeva nella parola, negli scritti, nei gesti.

Un diacono a lui legato da amicizia mi ha ricordato, in modo particolare, la sua capacità di stemperare i problemi richiamando sovente l’interlocutore con queste due parole: “aspetta” e “ascolta”.

Voglio, infine, concludere con un passo della lettera di san Paolo ai Filippesi che il diacono Gianfranco amava citare di frequente: “Siate sempre lieti nel Signore, ve lo ripeto: siate lieti. La vostra amabilità sia nota a tutti. Il Signore è vicino! Non angustiatevi per nulla, ma in ogni circostanza fate presenti a Dio le vostre richieste con preghiere, suppliche, ringraziamenti” (Fil 4,4-6).

Ricordiamolo ora – che ha raggiunto in pienezza la gioia – di presentare a Dio le nostre preghiere, suppliche e ringraziamenti.

Alla gentile e cara signora Barbara, ai figli Giovanni, Caterina, Elisabetta, Maddalena, ai nipoti, ai diaconi e a tutti gli amici del nostro diacono Gianfranco, la vicinanza affettuosa della Chiesa veneziana.