Meditazioni del Patriarca durante il pellegrinaggio dei giovani alla Madonna della Salute (Venezia, 20 novembre 2014)
20-11-2014
Pellegrinaggio dei giovani alla Madonna della Salute[1]
(Venezia, 20 novembre 2014)
 
 
 
 
 
Intervento del Patriarca mons. Francesco Moraglia nella Basilica di San Marco
Alla ricerca della felicità, beata te perché hai creduto. Sì, come abbiamo ascoltato, Maria di Nazareth è “beata” perché ha creduto. Il messaggio della rivelazione cristiana è chiaro: Maria è la donna beata, ossia la donna felice.
Come abbiamo sentito anche dalle interviste proiettate poco fa, di fronte a questa parola – “felicità”- noi andiamo in crisi, perché evoca ciò a cui aneliamo con tutte le forze ma, a ben vedere, non sappiamo nemmeno quali siano i contenuti della felicità. Tali contenuti ci sfuggono… Per noi, alla fine, la parola “felicità” riveste un valore magico: significa tutto, ma nulla di determinato…
Le aspettative che questa parola suscita in noi sono tante al punto che, alla fine, la felicità pare un’utopia e, comunque, anche se in certi momenti si realizza pare sempre destinata a durare poco o, in ogni modo, siamo sempre a rincorrere qualcosa che ci sfugge continuamente, che mai raggiungeremo in modo stabile e definitivo. Felicità diventa, così, sinonimo di precarietà…
Le tante promesse con cui la parola felicità mi viene incontro, alla fine, mi lasciano insoddisfatto e se anche mi danno gioia è per un breve momento e, poi, tutto ritorna come prima e si dilegua come neve al sole.
Felicità – lo abbiamo sentito – è sinonimo di appagamento e di pienezza ma pienezza e appagamento durano un breve spazio di tempo; poi tutto svanisce! In questo senso “psicologico” e “esistenziale” la parola felicità mi sfugge e finisce quasi per darmi un senso di sgomento. Sul piano psicologico e esistenziale la felicità è qualcosa di irraggiungibile, una specie di illusione o di utopia. E se uno mi chiede che cos’è la felicità non glielo so dire…
Quando si è giovani e si è al casello di partenza dell’autostrada, avendo tutta la vita di fronte, si può anche attendere e si può anche pensare che la felicità, prima o poi, arriverà… Ma, passando il tempo, l’attesa diventa insoddisfazione, talvolta delusione e frustrazione. E, così, ci pare di essere in una strada che non ha via d’uscita, non ha uno sbocco; si vorrebbe trovare una via d’uscita ma… nulla!
Dinanzi a tali situazioni la grande tentazione è prendere una scorciatoia e pensare che “felicità” fa rima con “facilità”, vale a dire cercare la felicità nelle cose facili e in ciò che appaga senza farci faticare, senza dover attendere.
Ricordiamo nel libro di Pinocchio il “paese dei balocchi”: “Lì non vi sono scuole, lì non vi sono maestri, lì non vi sono libri. In quel paese benedetto non si studia mai. Il giovedì non si fa scuola, e ogni settimana è composta di sei giovedì e di una domenica” (Carlo Collodi, Pinocchio).
Il “paese dei balocchi” è un luogo immaginario, descritto da Carlo Collodi nel trentesimo capitolo del suo romanzo. Pinocchio si reca dal suo amico Lucignolo per invitarlo alla colazione che ci sarebbe stata l indomani, ma Lucignolo sta aspettando la mezzanotte per partire, l’ora magica, l’ora dello sballo… E a Pinocchio, che gli chiede dove sarebbe andato, Lucignolo risponde che andava ad abitare nel più bel paese del mondo, che si chiama il Paese dei balocchi, e aggiunge: “È una vera cuccagna!”.
Pinocchio, che non sa resistere alla tentazione, decide di partire con lui ed altri ragazzi su un carro, tirato da dodici asini che indossano scarpe a foggia di stivaletto, e guidato dall “Omino di burro”: quanti “omini di burro incontriamo e magari ci fanno anche la morale, perché la sanno lunga… Nel paese dei balocchi “…in mezzo ai continui spassi e agli svariati divertimenti, le ore, i giorni, le settimane passavano come tanti baleni” ma, dopo cinque mesi, Pinocchio si sveglia una mattina con una brutta sorpresa: è diventato un asino.
Rileggiamo questo testo di Collodi proiettandolo nelle varie stagioni della nostra vita: “felice” e “facile” sono termini che hanno una comune assonanza, un suono simile. “Facilità” e “felicità”, addirittura, fanno rima….
Ora, cosa dice Gesù sulla felicità? Il Vangelo ha un sua idea precisa della felicità: ci parla della felicità come di un incontro con una persona. Per il Vangelo la felicità nasce da un rapporto; ciò che dona felicità è l’incontro vivo con Gesù.
Sì, la felicità è il risultato di un incontro. Non si dà felicità, secondo il Vangelo, se non in questo incontro. La felicità non ce la diamo noi da soli, non è neanche il risultato di una nostra conquista. E’ Lui che si introduce e ci introduce nella possibilità di dire la parola “per sempre”. Sì, felicità è poter dire in verità quella parola che, per noi uomini, è decisiva: la parola “per sempre”!
Noi uomini non siamo fatti per dire solo “per un poco” o “per molto tempo”, ma siamo fatti per dire “per sempre”. Ogni gioia perde il suo vero significato se si sa che, prima o poi, è destinata a venir meno. Una gioia piena, completa, grande, se si sa che deve venire meno, se si sa che è destinata a cessare, non è più vera gioia e soddisfazione.
Non a caso il Vangelo lega sempre la gioia a Gesù che è il vincitore della morte, l’unico che ha sconfitto la morte. Prima di Lui nessuno, dopo di Lui nessuno!
Cominciamo già a intravvedere le luci del Natale che annunciano questa gioia. Ascolteremo questo Vangelo: “C’erano in quella regione alcuni pastori che, pernottando all’aperto, vegliavano tutta la notte facendo la guardia al loro gregge. Un angelo del Signore si presentò a loro e la gloria del Signore li avvolse di luce. Essi furono presi da grande timore, ma l’angelo disse loro: «Non temete: ecco, vi annuncio una grande gioia, che sarà di tutto il popolo: oggi, nella città di Davide, è nato per voi un Salvatore, che è Cristo Signore. Questo per voi il segno: troverete un bambino avvolto in fasce, adagiato in una mangiatoia». E subito apparve con l’angelo una moltitudine dell’esercito celeste, che lodava Dio e diceva: «Gloria a Dio nel più alto dei cieli e sulla terra pace agli uomini, che egli ama». Appena gli angeli si furono allontanati da loro, verso il cielo, i pastori dicevano l’un l’altro: «Andiamo dunque fino a Betlemme, vediamo questo avvenimento che il Signore ci ha fatto conoscere». Andarono, senza indugio, e trovarono Maria e Giuseppe e il bambino, adagiato nella mangiatoia. E dopo averlo visto, riferirono ciò che del bambino era stato detto loro. Tutti quelli che udivano si stupirono delle cose dette loro dai pastori. Maria, da parte sua, custodiva tutte queste cose, meditandole nel suo cuore. I pastori se ne tornarono, glorificando e lodando Dio per tutto quello che avevano udito e visto, com’era stato detto loro” (Lc 2, 8-20).
La gioia è meditare le cose di Dio nella nostra vita, è portarle dentro, è vivere quell’incontro, è lasciare che Lui parli in ogni momento della nostra vita.
Con Gesù, il Risorto, la precarietà più grande – la morte – è definitivamente vinta e superata. Con Gesù, allora, si può tornare a “pensare in grande” – di questo abbiamo bisogno per essere giovani degni di questo nome – e a dire in verità, nella nostra vita, quel “per sempre” che è l’unico parametro degno dell’uomo, è l’unica parola che non getta nella tristezza della morte.
Con Gesù, vincitore della morte, siamo consegnati non ad un amore terreno e umano – che dura fino a quando vive colui che ci ama – ma ad un amore che vince la morte. Qualunque sia la nostra vocazione e missione – di prete, suora, papà, mamma, sposo, sposa o altro… – l’importante è consegnarsi ad un amore che vince la morte. Con Gesù l’amore di Dio, qui e ora, si fa disponibile e accessibile per ciascuno di noi ed è l’amore eterno di Dio.
La gioia, quindi, è la caratteristica propria del discepolo che ha incontrato il Signore. Ed è la gioia che nasce dall’incontro con Gesù. E Maria – non dimentichiamolo mai – è la prima discepola.
Il Vangelo di Giovanni, presentando l’incontro di Gesù risorto con i discepoli spaventati e in un luogo chiuso per timore, è chiaro: “La sera di quel giorno, il primo della settimana, mentre erano chiuse le porte del luogo dove si trovavano i discepoli per timore dei Giudei, venne Gesù, stette in mezzo e disse loro: «Pace a voi!». Detto questo, mostrò loro le mani e il fianco. E i discepoli gioirono al vedere il Signore. Gesù disse loro di nuovo: «Pace a voi! Come il Padre ha mandato me, anche io mando voi»” (Gv 20, 19-22).
Maria è colei che ci unisce nel Signore; non è solo una discepola, è “la” discepola, la prima dei discepoli, l’arca, il tempio, la casa dello Spirito Santo. E san Paolo, scrivendo ai Galati, così dice: “Il frutto dello Spirito invece è amore, gioia, pace, magnanimità, benevolenza, bontà, fedeltà, mitezza, dominio di sé…” (Gal 5,22).
Diamo questi contenuti al nostro progetto di gioia, che richiede di essere declinato in modo esigente, “per sempre”. Buon pellegrinaggio a tutti!
 
 
Intervento del Patriarca mons. Francesco Moraglia nella Basilica della Madonna della Salute
            Affidiamo alla Vergine Santissima la nostra felicità, la nostra gioia, come frutto dell’incontro; l’incontro richiede il sì, un sì mediante il quale l’eterno progetto – che Dio ha su ciascuno di voi – entri nel quotidiano, nel feriale, nelle piccole e grandi cose della vita di tutti i giorni.
            L’incontro di Gesù con Zaccheo, con Marta, con Maddalena, con Pietro, con Filippo ha cambiato la vita di queste persone. Da quel momento hanno incominciato a comprendere che la felicità non è ricercare le soddisfazioni ma è dire agli altri che quell’incontro ha cambiato la nostra vita.
            E’ un sì che richiede coraggio e semplicità, richiede la volontà di darsi a Colui che ci ama più di quanto non ci amiamo, un sì che voglio consegnare – attraverso un antico testo francescano – a Francesco d’Assisi (è anche un omaggio che intendiamo fare al Santo Padre).
            Maria ha detto il suo sì a Betlemme – “E tu, Betlemme, terra di Giuda, non sei davvero l’ultima delle città principali di Giuda: da te infatti uscirà un capo che sarà il pastore del mio popolo, Israele” (Mt 2, 6) -, Maria ha detto il suo sì a Nazareth – “Da Nàzaret può venire qualcosa di buono?” (Gv 1, 46), dice Natanaele a Filippo -, Maria ha detto il suo sì ai piedi della croce, che era la pena esemplare dei malfattori.
            Francesco ci insegna dov’è la vera letizia, dov’è la vera gioia: a Betlemme, a Nazareth, sul Calvario, nel cenacolo… Ognuno di noi ha la sua Betlemme, la sua Nazareth, il suo Calvario, il suo cenacolo.
            “Lo stesso fra Leonardo riferì che un giorno il beato Francesco, presso Santa Maria degli Angeli, chiamò frate Leone e gli disse: “Frate Leone, scrivi”. E questi rispose: “Eccomi, sono pronto”. “Scrivi – disse – quale è la vera letizia”. “Viene un messo e dice che tutti i maestri di Parigi sono entrati nell ordine. Scrivi: non è vera letizia. E se ti giunge ancora notizia che i miei frati sono andati tra gli infedeli e li hanno convertiti tutti alla fede, oppure che io ho ricevuto da Dio tanta grazia da sanar gli infermi e da fare molti miracoli; ebbene io ti dico: in tutte queste cose non è la vera letizia”. “Ma quale è la vera letizia?” “Ecco, io torno da Perugia e, a notte fonda, giungo qui, ed è inverno fangoso e così rigido che, all estremità della tonaca, si formano dei ghiacciuoli d acqua congelata, che mi percuotono continuamente le gambe fino a far uscire il sangue da siffatte ferite. E io tutto nel fango, nel freddo del ghiaccio, giungo alla porta e, dopo aver lungo picchiato e chiamato, viene un frate e chiede: “Chi è?”. Io rispondo: “Frate Francesco”. E quegli dice: “Vattene, non è ora decente, questa, di andare in giro, non entrerai”. E poiché io insisto ancora, l altro risponde: “Vattene, tu sei un semplice e un idiota, qui non ci puoi venire ormai; noi siamo tanti e tali che non abbiamo bisogno di te”. E io sempre resto davanti la porta e dico: “Per amor di Dio, accoglietemi per questa notte”. E quegli risponde: “Non lo farò. Vattene al luogo dei Crociferi e chiedi là”. Ebbene, se io avrò avuto pazienza e non mi sarò conturbato, io ti dico che qui è la vera letizia e qui è la vera virtù e la salvezza dell anima” (Fonti francescane, 278).
 
            E’ un testo sul quale dovremmo molto riflettere perché, probabilmente, traduce un momento in cui c’è tutto il dolore di Francesco, quando fu messo fuori dai suoi frati. Questa versione è meno colorita dell’altra ma, forse, più vera. Forse fu così vera che non fu divulgata come quella, più serena e tranquillizzante, dei “fioretti”…

[1] I testi qui riportati – non rivisti dall’autore – sono la trascrizione dei due interventi pronunciati dal Patriarca in tale occasione e mantengono volutamente il carattere colloquiale che li ha contraddistinti.