Meditazione durante la celebrazione penitenziale nella “convivenza” d’inizio corso con le comunità del Cammino Neocatecumenale (Lignano Sabbiadoro, 20 ottobre 2017)
20-10-2017

Celebrazione penitenziale durante la “convivenza” d’inizio corso

con le comunità del Cammino Neocatecumenale

(Lignano Sabbiadoro, 20 ottobre 2017)

 

Meditazione del Patriarca Francesco Moraglia

 

 

 

 

«Perché andate ripetendo questo proverbio sulla terra d’Israele: “I padri hanno mangiato uva acerba e i denti dei figli si sono allegati”? Com’è vero che io vivo, oracolo del Signore Dio, voi non ripeterete più questo proverbio in Israele» (Ez 18, 2-3).

Di fronte al peccato possiamo avere vari atteggiamenti: ad esempio, se il peccato è stato fatto da altri e io ne sopporto le conseguenze… Il profeta Ezechiele, invece, vuole che noi ragioniamo in un altro modo: mi voglio convertire, non posso autogiustificarmi sul piano umano, non posso cadere in una facile comprensione, non posso rimuovere il mio peccato, devo convertirmi.

E il Vangelo che abbiamo appena ascoltato ci dice, senza mezzi termini, il pensiero di Gesù: «Fate attenzione e guardatevi dal lievito dei farisei e dei sadducei» (Mt 16,6). È quel lievito che abita spesso nel nostro cuore. E che poi diventa anche rottura di quella legge che vuole darci delle indicazioni concrete per poter amare il Signore.

Gesù ci dice di stare attenti e in guardia – quando si parla del peccato – soprattutto da noi stessi, dal nostro cuore, dalla tentazione di nascondere il nostro peccato. Il peccato non va rimosso, va confessato, va detto al Signore e la Chiesa è sempre stata attenta alla riservatezza perché l’accusare pubblicamente le proprie mancanze potrebbe legittimare altri: ma allora lo fanno tutti… E allora la Chiesa vuole che noi confessiamo il peccato ma che rimaniamo “riservati” nel dirlo al Signore. Ci sono delle cose che dobbiamo dire al Signore e le dobbiamo dire fino in fondo; le dobbiamo dire con la parola – “riconosco il mio peccato” –  ma le dobbiamo dire anche con uno stile di conversione.

Prima sentivo dire che la confessione, per noi, è il “secondo battesimo”; la Chiesa antica lo chiama anche il “battesimo faticoso”. Molte volte le nostre confessioni non funzionano perché non c’è preparazione e si confonde la misericordia di Dio con un’autoassoluzione.

Il Vangelo predica la misericordia ma predica anche la conversione; predica la penitenza, il digiuno. La confessione – il sacramento della riconciliazione e della penitenza – funziona quando ci rendiamo disponibili alla grazia di Dio.

Nel momento in cui io preparo la mia confessione, non devo temere gli uomini, il loro giudizio, le loro attese nei miei confronti… Devo temere piuttosto quel giudizio di Dio che è di perdono, ma potrebbe non realizzarsi come perdono perché io non mi lascio perdonare. I grandi incontri di Gesù nel Vangelo sono sempre incontri di perdono, di riconciliazione, di conversione.

“…Gesù alzò lo sguardo e gli disse: «Zaccheo, scendi subito, perché oggi devo fermarmi a casa tua». Scese in fretta e lo accolse pieno di gioia. Vedendo ciò, tutti mormoravano: «È entrato in casa di un peccatore!». Ma Zaccheo, alzatosi, disse al Signore: «Ecco, Signore, io do la metà di ciò che possiedo ai poveri e, se ho rubato a qualcuno, restituisco quattro volte tanto»” (Lc 19, 5-8). E all’adultera Gesù dice: «Neanch’io ti condanno; va’ e d’ora in poi non peccare più» (Gv 8,11).

Con la donna samaritana è Gesù ad entrare in argomento: “Le dice: «Va’ a chiamare tuo marito e ritorna qui». Gli risponde la donna: «Io non ho marito». Le dice Gesù: «Hai detto bene: “Io non ho marito”. Infatti hai avuto cinque mariti e quello che hai ora non è tuo marito; in questo hai detto il vero». Gli replica la donna: «Signore, vedo che tu sei un profeta!»” (Gv 4, 16-19). E di lì nasce la conversione che rende questa donna “missionaria” presso la comunità, impenetrabile, dei samaritani.

Se ci interessa la catechesi, l’evangelizzazione, la missione, incominciamo allora ad ascoltare bene la pagina dell’incontro di Gesù con la donna samaritana. Liberarci dai nostri peccati ci rende liberi, forti, trasparenti. La grazia non viene da noi, noi siamo chiamati ad accoglierla. E un cuore puro, un cuore trasparente, diventa allora un cuore e uno “sguardo” che  annuncia il Vangelo.

Annunciare il Vangelo è la prima carità. È la carità spirituale, è l’opera di misericordia spirituale più grande che noi possiamo compiere. Dobbiamo, però, creare in noi le condizioni perché ci possa essere l’annuncio.

Il nostro annuncio dipende dalla nostra anima, dal nostro rapporto con il Signore, dal nostro essere e stare con Lui. Non dimentichiamo che nel Vangelo è emblematica la chiamata dei Dodici: “Ne costituì Dodici – che chiamò apostoli –, perché stessero con lui e per mandarli a predicare con il potere di scacciare i demòni” (Mc 3, 14-15). Stare con Lui, dunque.

Ecco allora il tempo della preghiera, il tempo in cui può cambiare la nostra vita, il tempo in cui incominciamo a vedere le cose non più secondo l’uomo vecchio che dobbiamo temere, perché è espressione del maligno. E il maligno non è invenzione di qualcuno, appartiene alla rivelazione cristiana ed anzi il Nuovo Testamento ci dice che più si manifesta Gesù e più aumenta – soprattutto nei momenti significativi del Regno di Dio – la presenza del maligno.

Pensiamo all’inizio della vita pubblica di Gesù (le tentazioni nel deserto). O, ancora, pensiamo alla notte dell’Ultima Cena: “…intinto il boccone, lo prese e lo diede a Giuda, figlio di Simone Iscariota. Allora, dopo il boccone, Satana entrò in lui. Gli disse dunque Gesù: «Quello che vuoi fare, fallo presto»” (Gv 13, 26-27); «Colui che ha messo con me la mano nel piatto, è quello che mi tradirà. Il Figlio dell’uomo se ne va, come sta scritto di lui; ma guai a quell’uomo dal quale il Figlio dell’uomo viene tradito! Meglio per quell’uomo se non fosse mai nato!» (Mt 26, 23-24).

Più è presente il regno di Dio – anche nelle vite dei grandi santi -, più è presente l’azione di Dio e la presenza di Dio in una persona e più il demonio si dà da fare – è lui che dobbiamo temere! – e gli uomini diventano più vulnerabili. Ma Gesù ci esorta a non temere colui che è stato sconfitto – il maligno, l’avversario, il nemico, il menzognero -, ci esorta a non temerlo.

E qual è, allora, la prima forma di esorcismo? Vivere in grazia di Dio, vivere la fede, vivere la speranza, vivere la carità, ritornare a Dio con l’umiltà del peccatore che chiede perdono.

Accompagniamo, allora, i momenti nei quali ci accostiamo al sacramento della misericordia con la sincerità, con l’umiltà, con la fiducia, con il desiderio di riparare, di diventare donne e uomini nuovi e, soprattutto, sentendo che il perdono che abbiamo ricevuto chiede di essere testimoniato nel perdono che diamo agli altri.

Il perdono è il problema grosso dell’uomo: essere perdonato ed essere capace di perdonare. Qui c’è l’annuncio del cristiano: la Pasqua – dove Gesù ha salvato il mondo, non con un discorso ma con un atto di amore – voleva e vuole essere perdono per tutti, un perdono proposto a donne e uomini liberi.

Il perdono è un grande dono, è il dono per eccellenza, è il dono che dobbiamo accogliere, è il dono del Battesimo, è il dono del “secondo battesimo” o “battesimo laborioso”, è il dono che noi siamo chiamati a fare agli altri.

Il Vangelo di oggi ci rassicura, ci istruisce e, soprattutto, ci dice una cosa fondamentale: noi siamo sempre presenti negli occhi del Signore! Infatti, ci dice Gesù: “Non abbiate paura: valete più di molti passeri!” (Lc 12,7). Neppure uno si perde se anche i passeri – che valgono “due soldi” (Lc 12,6) – sono importanti agli occhi del Padre.

Ma noi valiamo più di molti passeri e il momento in cui chiediamo perdono al Signore è proprio il momento in cui le nostre anime, le nostre vite, le nostre storie dicono quanto noi valiamo agli occhi del Padre, perché quel perdono non è frutto di un miracolo o di un bel discorso ma è il frutto di Chi è in croce ed è voluto salire in croce per noi.