Meditazione del Patriarca durante la Veglia di riflessione e preghiera in ricordo delle vittime innocenti delle mafie (Venezia - Basilica Patriarcale di San Marco, 9 marzo 2019)
09-03-2019

 “Non t’importa che moriamo?”

Veglia di riflessione e preghiera

in ricordo delle vittime innocenti delle mafie

(Venezia – Basilica Patriarcale di San Marco, 9 marzo 2019)

Meditazione del Patriarca Francesco Moraglia

 

 

 

Ringrazio il Signore e ringrazio voi familiari e amici delle vittime innocenti delle mafie e i fratelli delle diverse confessioni cristiane per questo momento di preghiera.

Il tema della nostra Veglia è dato dalla domanda che i discepoli rivolgono a Gesù nel momento più drammatico della traversata del lago: “Non t’importa che moriamo?” (cfr Mc 4,38).

La stessa domanda, come dolorosa ferita, s’innalza dai familiari e amici delle vittime innocenti delle mafie che chiedono da troppo tempo di sapere la verità sulle morti che hanno segnato per sempre la loro vita e quelle delle loro famiglie.

La domanda s’innalza come un grido nel momento più drammatico della prova, quando i discepoli si sentono abbandonati. Il rischio del naufragio è imminente e, proprio perché pescatori esperti, comprendono la gravità del pericolo.

Mentre Pietro, Giacomo, Giovanni e gli altri sono sopraffatti dalle onde, Gesù – che è sulla barca con loro – viene percepito lontano ed anzi assente. Non rimane, quindi, che gridare: “Non t’importa che moriamo?”. Gesù risponde chiedendo la loro fiducia e li esorta a non aver paura: “Perché avete paura? Non avete ancora fede?” (cfr. Mc 4, 38-40).

Il grido dei discepoli tribolati, affaticati, impotenti, è anche il vostro e il nostro grido: il silenzio di Dio nella vita di un uomo, di una famiglia, di una comunità e della Chiesa è “prova” dolorosissima.

La fede, alla quale Gesù invita, è per i discepoli una vera “riserva” di energia divino-umana: non solo divina e non solo umana, ma insieme divino-umana che dà forza anche quando tutto, umanamente, viene meno e non si hanno risposte.

Sì, la fede è quella “riserva” che permette di resistere anche quando sul piano umano tutto crolla.

Signore, donaci un cuore forte per non venir meno e donaci, anche, di poter vedere, al termine del tunnel dei pesanti silenzi umani, la luce della verità!

In questa veglia di preghiera – insieme a Maria, l’Addolorata – vogliamo chiedere a Dio di poter conoscere la verità, magari attraverso la sincera conversione di chi – a vari livelli – si è macchiato le mani di sangue: mandanti, esecutori, fiancheggiatori.

Non si può però parlare di conversione se non si dà la volontà reale di riparare il male commesso. E la riparazione inizia dalla confessione del peccato per garantire il diritto di sapere la verità a chi è stato privato delle persone più care (figli, genitori, fratelli, sposi, fidanzati).

Sì, perché le mani insanguinate possono essere lavate solo se si confessa il peccato. E, poi, Dio – come solo Lui sa fare – lavorerà nelle anime.

Salvatore Grigoli – il killer di don Pino Puglisi – racconta, infatti, che dal giorno dell’omicidio, dentro di lui, rimase qualcosa di umanamente inspiegabile. Grigoli ha confessato ben 46 omicidi e, della sera del 15 settembre 1993, racconta: “Spatuzza (che con lui formava il commando) gli tolse il borsello e gli disse: padre, questa è una rapina. Lui rispose: me l’aspettavo. Lo disse con un sorriso. Un sorriso che mi è rimasto impresso – dice Salvatore Grigoli che poi continua –. Io non ho esperienza di santi. Quello che posso dire è che c’era una specie di luce in quel sorriso. Un sorriso che mi aveva dato un impulso immediato. Non me lo so spiegare: io già ne avevo uccisi parecchi, però non avevo mai provato nulla del genere. Me lo ricordo sempre quel sorriso, anche se faccio fatica persino a tenermi impressi i volti, le facce dei miei parenti. Quella sera cominciai a pensarci, si era smosso qualcosa” (Puglisi: così parlò il suo killer di Francesco Anfossi – Famiglia Cristiana, 28.6.2012).

Angelo Spinillo, vescovo di Aversa – la Diocesi di don Peppino Diana, ucciso dalla camorra il giorno del suo onomastico, venticinque anni fa, il 19 marzo 1994 -, ha spiegato come in don Diana, in don Puglisi e nel magistrato Rosario Livatino “non si riconosce soltanto un coraggio vissuto fino all’eroismo, una sensibilità capace di reagire davanti alle sofferenze dell’umanità oppressa, oppure una visione sapiente della verità, in essi si riconosce una presenza che si affida a Dio, che si consegna a Dio. È veramente intenso questo verbo: consegnarsi a Dio”.

Con questa veglia non intendiamo fare una commemorazione ma – come ha detto ieri sera don Luigi – vogliamo pregare, sapendo che la preghiera è la vita del cristiano e la sua forza.

Intendiamo, quindi, chiedere luce per noi e per gli uomini e le donne delle varie mafie. Quello che don Pino diceva sulla paura spiega come si è potuto arrivare alla sera del 15 settembre 1993, il giorno della sua esecuzione. Spatuzza e Grigoli decisero di uccidere subito, quella stessa sera, il prete, senza altri pedinamenti e appostamenti, perché era privo di ogni protezione ed era un bersaglio facile.

“Non ho paura delle parole dei violenti – diceva, infatti, don Pino – ma del silenzio degli onesti”.

Vengono alla mente le parole di cui si servirono i media per commentare le minacce di Totò Riina – ascoltato dalle cimici della polizia giudiziaria nel carcere di Opera – mentre quasi si vanta dell’assassinio del parroco di Brancaccio e immagina analoga fine per don Luigi Ciotti.

La colpa di don Puglisi e don Ciotti era chiara: “Succhiano aria alla mafia”. Così si lamentava il boss, indirettamente confermando l’attendibilità del movente dell’omicidio di don Pino che poi l’ha portato alla beatificazione: don Puglisi voleva fare il prete fino in fondo e forte del Vangelo voleva sottrarre i ragazzi alla malavita, far pensare le persone e ridare fiducia alla gente.

La paura è lo stato d’animo per cui avvertiamo il nostro limite, la nostra vulnerabilità e dice un rapporto sano con la realtà e la normalità di una persona.

È coraggioso non chi non prova paura ma chi convive e domina la paura. Auguriamoci di non incontrare mai persone che non sanno cos’è la paura; tali persone, infatti, si percepiscono come misura di tutto, come chi mai deve render conto a nessuno. L’“anti-Stato”, quando si materializza, esprime tale modo di rapportarsi agli altri e alle istituzioni.

La mafia poi usa un linguaggio religioso, quasi mistico. E così cerca di legittimarsi, legittimando il suo potere come “assoluto”.

Un teologo siciliano, Antonio Sicari, che quindi conosce il contesto, scrivendo un breve profilo di don Puglisi fa notare come si espresse la Corte d’Assise di Palermo nella sentenza di condanna. Rimando di seguito il testo già citato ieri perché lo ritengo particolarmente significativo per comprendere come Cosa Nostra voglia porsi ed essere percepita: “…a Brancaccio il boss in carica era nominato «Madre Natura» («Madre Natura ha mandato a dire di fare questo omicidio»), e il responsabile del «gruppo di fuoco» era noto come «u Signuri» («il Signore», cioè Dio) perché – dicevano i mafiosi nel loro incerto italiano – «aveva il potere di salvare le persone e di poterle ammazzare. Bastava una sua parola per morire o per campare una persona». Ed era anche universalmente noto che il vecchio boss della zona (in carcere da tempo) era soprannominato «il Papa» (A Sicari, L’Ottavo libro dei Ritratti di Santi, Jaca Book, 2012, 156).

In conclusione ritorniamo al Vangelo di Marco – il nostro testo di riferimento – per sottolineare come, all’inizio, Gesù dica: “Passiamo all’altra riva” (Mc 4,35). Sì, chiede ai discepoli di passare all’altra parte, con una traversata che sarà faticosa e drammatica, quasi a dire che il travaglio e il timore accompagnano tratti del cammino dei discepoli; gli amici di Gesù sono chiamati a purificare la loro fede.

Sì, la fede purifica l’umano che è in noi. Oltre alle virtù teologali – fede, speranza e carità – si danno quelle umane: la giustizia-legalità, la fortezza-coraggio, il autocontrollo-temperanza e la prudenza, ossia dire e fare, al momento giusto, ciò che deve essere detto e fatto anche se dire e fare costa caro e anche se a dire e a fare si è rimasti soli.

Il realismo cristiano sa che una conquista non è definitiva. La manna, nel deserto, veniva raccolta nella quantità necessaria per quel giorno, poi, il giorno successivo bisognava raccoglierne un‘altra razione. Sì, abbiamo bisogno di abitare la quotidianità, di abitarla insieme e di tener sempre desta la memoria.

Siamo consapevoli che le mafie oggi non sono più realtà circoscritte a un territorio – storicamente considerato mafioso – ma presenze radicate ovunque si danno grandi flussi di denaro e potere.

In Italia i nostri piccoli paesi e le nostre grandi città devono esser abitate e presidiate da comunità responsabili e solidali in cui l’altro, insieme a me, si mette in gioco e la presenza dello Stato sia percepita. E così non ci sia più chi è costretto a chiedere aiuto alle persone sbagliate che, dopo averti fatto il favore, ti portano via l’anima rendendoti “non-persona”.

Il sacrificio di chi non ha piegato il capo e ha pagato con la vita e il dolore dei suoi familiari e amici sia un valore riconosciuto da tutti.

La Chiesa faccia suo il grido di san Giovanni Paolo II, risuonato nella Valle dei Templi ad Agrigento il 9 maggio 1993: “Dio ha detto una volta: non uccidere. Non può l’uomo, qualsiasi uomo, qualsiasi umana agglomerazione, mafia, non può cambiare e calpestare questo diritto santissimo di Dio. Nel nome di Cristo, mi rivolgo ai responsabili: convertitevi! Un giorno verrà il giudizio di Dio!”.

E ricordiamo anche quanto ha detto Papa Francesco, a Palermo, lo scorso 15 settembre, giorno anniversario della morte di don Pino Puglisi: “Perciò ai mafiosi dico: cambiate, fratelli e sorelle! Smettete di pensare a voi stessi e ai vostri soldi… Convertitevi al vero Dio di Gesù Cristo, cari fratelli e sorelle! Io dico a voi, mafiosi: se non fate questo, la vostra stessa vita andrà persa e sarà la peggiore delle sconfitte”.

“[Gesù disse ai discepoli]: «Passiamo all’altra riva»… Si destò, minacciò il vento e disse al mare: «Taci, calmati!». Il vento cessò e ci fu grande bonaccia. Poi disse loro: «Perché avete paura? Non avete ancora fede?» (cfr Mc 4,35.39-40).

Signore, aumenta la nostra fede affinché possiamo essere cristiani fedeli al nostro battesimo e cittadini onesti, leali, coraggiosi, capaci di opporci ad ogni forma di sopraffazione e illegalità, nella consapevolezza che non c’è carità senza verità e giustizia.