Meditazione del Patriarca durante il Mandato a catechisti, evangelizzatori ed educatori alla fede (Venezia, Basilica cattedrale di S. Marco - 3 ottobre 2015)
03-10-2015

Mandato a catechisti, evangelizzatori ed educatori alla fede
(Venezia, Basilica cattedrale di S. Marco – 3 ottobre 2015)

Meditazione del Patriarca mons. Francesco Moraglia

Viviamo oggi un momento di gioia importante perché tutti insieme – presbiteri, diaconi, consacrati, consacrate e fedeli laici – stiamo prendendo un impegno come Chiesa, attraverso il Vescovo.

Prendiamo questo impegno guardando il Signore Gesù negli occhi. Un po’ come Pietro, che ha detto: «Signore, se sei tu, comandami di venire verso di te sulle acque». Ed egli disse: «Vieni!»” (Mt 14, 28-29). Fintanto che Pietro guarda il volto di Gesù non si accorge del vento, delle onde, della tempesta e va verso il Signore. Nel momento in cui distacca lo sguardo da Lui incomincia ad aver paura.  «Uomo di poca fede, perché hai dubitato?» (Mt 14,32). Vorrei che quest’icona evangelica ci accompagnasse lungo tutto l’Anno giubilare della Misericordia.

L’evangelizzatore, il catechista, la catechista e coloro che operano nell’ambito dell’annuncio cristiano sono innanzitutto discepoli del Signore. Non “fanno qualcosa” ma sono discepoli del Signore che rispondono a una vocazione ben precisa, che è tale se si traduce in una missionarietà: guardare a Cristo servendolo in termini ecclesiali, dove la Chiesa – come ci ricorda il Concilio vaticano II – è l’umanità unita a Dio in Cristo. Ogni uomo, potenzialmente, è Chiesa e lo dobbiamo guardare quindi come potenzialmente unito a Cristo.

Questo, in sintesi, era il contenuto del messaggio consegnatovi lo scorso anno per il Mandato 2014 quando, insieme, avevamo tentato di leggere la duplice realtà – cristologica ed ecclesiale – della vocazione del discepolo e lo avevamo fatto guardando al Poverello d’Assisi. Francesco incontra Cristo e capisce che l’unica ricchezza è Lui e, allora, si può rinunciare a tutto.

Anche quest’anno nell’ora del transito del Poverello ci incontriamo per il Mandato. E non possiamo non unirci spiritualmente alla veglia di preghiera che si sta per vivere in Piazza San Pietro, in vista del Sinodo della famiglia, attorno a Papa Francesco.

Ai catechisti, agli animatori dei gruppi di ascolto e a tutti coloro che si dedicano all’evangelizzazione, a voi formatori, educatori e responsabili di comunità, il più cordiale benvenuto e ringraziamento per la vostra  preziosa opera in Diocesi. Qui c’è la nostra Chiesa e la Chiesa che è in Venezia ha bisogno di voi e avrà sempre più bisogno di Voi!

E sarà Chiesa sempre più gradita al Signore nel momento in cui – con il Vescovo, i presbiteri, i diaconi, i consacrati e le consacrate – anche i fedeli laici saranno sempre più soggetti vivi, attivi, presenti, significativi e irrinunciabili della Chiesa di Dio. Voi non siete – come si dice – dei battitori liberi ma appartenete alla comunità ecclesiale e, in particolare, a quella degli evangelizzatori.

Il nucleo originario della vostra  vocazione – come, d’altronde, quello di ogni vocazione – è costituito dall’incontro personale con Gesù Cristo. Ricordiamo, a tale proposito, quando i Vangeli presentano gli incontri di Gesù con i primi discepoli.

Si tratta in realtà di un incontro ripetuto, rinnovato, che si propone più volte  nella vita di una persona. Non è un incontro che avviene una volta sola (c’è anche quel tipo di incontro, certo!) ma è un incontro che si rinnova e si irrobustisce proprio nei momenti delle prove e delle immancabili difficoltà. Un incontro che avviene tutti i giorni, molte volte al giorno.

Se usciamo da questa logica, non percepiamo più la realtà della Pasqua: Cristo il Vivente che mi accompagna, mi precede, mi attende e mi provoca. Mi chiama, cioè, ad uscire fuori da me stesso. Prima di “Chiesa in uscita” siamo discepoli del Signore e quindi “Chiesa in uscita”!

Richiamo qui, brevemente, la vicenda biblica del profeta Elia che è stato plasmato dagli eventi stessi della sua vita. E proprio attraverso di essi Dio lo conduce lentamente là dove voleva che arrivasse. Dopo il successo nei confronti dei profeti di Baal e di Astarte, Elia si sente forte ma ad un certo punto lo scenario cambia e così la prova, la sofferenza e la persecuzione che subisce lo guidano verso una maggiore consapevolezza di Dio e di sé.

Elia, spaventato, fugge dall’ira della regina Gezabele: è un uomo che sembra soccombere di fronte ad una donna e, per il maschilismo dell’epoca, ciò rappresenta qualcosa di inaudito. Elia è sconfitto, fugge e sembra, addirittura, venir meno ma, proprio da quell’esperienza, verrà purificato dall’apparente ma doloroso abbandono di Dio. Elia non è più solo il vincitore contro i falsi profeti ma è, anche, l’uomo fuggiasco che deve fare i conti con lo spavento e il pericolo della morte. Arriverà all’Oreb, il monte di Dio, dove farà l’esperienza che cambia la sua vita.

Ogni persona – prima di svolgere le funzioni di evangelizzatore, catechista, educatore o formatore – deve chiedersi, innanzitutto, se è un discepolo o una discepola del Signore che, come Pietro, lo guarda negli occhi e, sulla sua parola, va verso di Lui.

Per dirla in altri termini: ci si fa carico dell’annuncio cristiano e si fa risuonare la catechesi, solamente perché abbiamo incontrato Gesù e lo abbiamo riconosciuto  come Signore della nostra vita. Impegnarsi nell’annuncio, nell’evangelizzazione e nella catechesi vuol dire declinare il proprio “sì” nel concreto della vita che ci è stata donata.

Abbiamo scelto non a caso il brano del Vangelo secondo Matteo in cui si racconta, appunto, che l’apostolo Pietro è invitato da Gesù a camminare sulle acque ma poi, in un certo momento, si lascia prendere dalla paura, gli viene meno la fede e, allora, in quel momento la forza del vento e delle onde lo travolgono[1].

Anche per noi è facile lasciarci prendere dalla paura che viene non tanto dalle onde agitate o dal vento che soffia. Sono le domande che, ad un certo punto, ognuno di noi si pone nella sua vita. E sono quelle domande spesso legate al silenzio di Dio nella nostra vita; questo silenzio di Dio nella nostra vita ci permette di crescere nella fede.

Gli evangelizzatori, i catechisti e quanti annunciano la Parola di Dio sono allora uomini e donne, giovani e anziani, che – lo ripetiamo – prima di tutto hanno fatto la scelta di Cristo in uno stretto rapporto tra fede e vita. E il loro impegno consiste proprio nel comunicare e nel condividere la vita buona di Gesù vivendo e testimoniando concretamente la comunione ecclesiale. Non c’è vera fede cristiana che non si esprima in una vita di comunione ecclesiale.

All’evangelizzatore e al catechista è richiesta una reale comunione con la Parola di Dio e con la Chiesa. Col Papa, col Vescovo e col proprio parroco, in una stretta sinergia – fatta di “collaborazione” e “corresponsabilità” – con gli altri operatori della pastorale parrocchiale e inter-parrocchiale.

La grande sfida che abbiamo davanti è proprio questa: realizzare una testimonianza di Chiesa che vuole essere  evangelizzata da Gesù per poi, a sua volta, diventare evangelizzatrice nella logica del cantiere aperto.

Oggi, nella nostra Chiesa diocesana, questa comunione si traduce e si esprime in un impegno – certo non facile neanche per il Vescovo, per i parroci, per i diaconi – nelle nascenti collaborazioni pastorali che, in taluni vicariati, stanno muovendo i primi passi.

Le collaborazioni pastorali – desidero rimarcarlo – vengono richieste dalla stessa realtà dei fatti e nascono da un cammino condiviso negli organi di partecipazione: Consiglio presbiterale e dei Vicari e Provicari di Zona, Consiglio pastorale diocesano, Uffici di Curia ed anche la Commissione per il Giubileo della Misericordia.

Prima di tutto sono richieste da una realtà teologica: siamo Chiesa, non possiamo delegare altri. Si tratta di un processo, di un cammino, di una strada che dobbiamo iniziare e che richiede coraggio ed umiltà nella logica di conoscere e valorizzare l’altro.

In questo modo il Vescovo, i presbiteri, i diaconi, i consacrati e i laici sono chiamati alla comunione, ad accogliersi a vicenda e a collaborare nell’unico soggetto ecclesiale; questo atteggiamento del cuore richiede povertà, disinteresse e superamento di qualsiasi autoreferenzialità.

Ora è necessario mettere in pratica quanto si è condiviso in questi anni, incominciando dalla visita feriale nelle parrocchie iniziata il 26 aprile 2012 e terminata il 4 dicembre 2014; è necessario poi avere un cuore aperto, capace d’amare la nostra Chiesa  a partire dalle sue tante risorse e anche con le sue piccole o grandi fragilità accettando, con animo fiducioso, le une e le altre.

E’ un momento importante per la nostra Chiesa. Amare la Chiesa vuol dire oggi servirla andando oltre il proprio individuale ambito d’azione pastorale con coraggio e guardando al futuro. Tutti siamo chiamati a lasciare, dopo di noi, un seme che sboccerà, forse, quando noi non ci saremo più, ma la Chiesa che è in Venezia ci sarà e, magari, vivrà una stagione di prosperità anche grazie alla nostra semina.

La costruzione non facile di piccole comunità che si fanno discepole per poter diventare missionarie, evangelizzatrici e che sono composte da presbiteri, diaconi, consacrati e laici, da cui nessuno si può chiamare fuori: è questa la sfida dinanzi a cui si trova la nostra Chiesa chiamata ad esser viva, missionaria e, insomma, essere Chiesa “in uscita”, a servizio del Vangelo là dove viviamo.

Si tratta, in altri termini, di vivere quell’ecclesiologia di comunione che il Concilio Vaticano II – non tralascio mai di ricordare che siamo nell’anno cinquantesimo della sua solenne conclusione – ha attinto dalla più antica tradizione.
La realtà della comunione, rettamente vissuta: è proprio da qui che vogliamo partire.

Allora è essenziale, per il catechista e per l’annunciatore della Parola, una formazione spirituale continua – ossia la conoscenza della Parola (che deve plasmare la nostra vita e i nostri gesti), della dottrina e della metodologia – ma anche una profonda comunione col Signore e con la Chiesa, con il magistero della Chiesa. E, non ultima, una vita ricca di carità.

Affido a voi, carissimi catechisti ed evangelizzatori, la riflessione indicata al n. 74 degli Orientamenti per l’annuncio e la catechesi in Italia che, non a caso, si intitolano “Incontriamo Gesù”.

“Il catechista è persona della memoria e della sintesi: dottrina e vita, annuncio e dialogo, accoglienza e testimonianza di fede trovano in lui una vera esperienza di carità: «Chi è il catechista? È colui che custodisce e alimenta la memoria di Dio; la custodisce in se stesso e la sa risvegliare negli altri. (…) La fede contiene proprio la memoria della storia di Dio con noi, la memoria dell’incontro con Dio che si muove per primo, che crea e salva, che ci trasforma; la fede è memoria della sua Parola che scalda il cuore, delle sue azioni di salvezza con cui ci dona vita, ci purifica, ci cura, ci nutre. Il catechista è proprio un cristiano che mette questa memoria al servizio dell’annuncio; non per farsi vedere, non per parlare di sé, ma per parlare di Dio, del suo amore, della sua fedeltà. Parlare e trasmettere tutto quello che Dio ha rivelato, cioè la dottrina nella sua totalità, senza tagliare né aggiungere (…) Il catechista allora è un cristiano che porta in sé la memoria di Dio, si lascia guidare dalla memoria di Dio in tutta la sua vita, e la sa risvegliare nel cuore degli altri». In tal senso il catechista è colui e colei che aiuta la persona a discernere e ad accogliere la propria vocazione come progetto di vita” (Conferenza Episcopale Italiana, Orientamenti per l’annuncio e la catechesi in Italia. Incontriamo Gesù, n.74).

Io aggiungerei: questa è una memoria “pericolosa”. Sì, la memoria del Vangelo è “pericolosa” per il mondo ed ecco perché il mondo cerca sempre delle ermeneutiche (cioè delle interpretazioni) “addomesticate” della Parola di Dio: “Sì, ma non esageriamo… Sì, ma fino ad un certo punto…”.

Aiutiamo il nostro tempo – gli uomini e le donne, i ragazzi che ci sono affidati – a riscoprire la memoria “pericolosa” del Vangelo e quel discernimento di cui il mondo oggi ha bisogno.

 


[1] “Congedata la folla, salì sul monte, in disparte, a pregare. Venuta la sera, egli se ne stava lassù, da solo. La barca intanto distava già molte miglia da terra ed era agitata dalle onde: il vento infatti era contrario. Sul finire della notte egli andò verso di loro camminando sul mare. Vedendolo camminare sul mare, i discepoli furono sconvolti e dissero: «È un fantasma!» e gridarono dalla paura. Ma subito Gesù parlò loro dicendo: «Coraggio, sono io, non abbiate paura!». 28Pietro allora gli rispose: «Signore, se sei tu, comandami di venire verso di te sulle acque». Ed egli disse: «Vieni!». Pietro scese dalla barca, si mise a camminare sulle acque e andò verso Gesù. Ma, vedendo che il vento era forte, s’impaurì e, cominciando ad affondare, gridò: «Signore, salvami!». E subito Gesù tese la mano, lo afferrò e gli disse: «Uomo di poca fede, perché hai dubitato?». Appena saliti sulla barca, il vento cessò. Quelli che erano sulla barca si prostrarono davanti a lui, dicendo: «Davvero tu sei Figlio di Dio!»”(Mt 14,23-33).