Meditazione al ritiro spirituale di Avvento per le Scuole Grandi e le Arciconfraternite della città di Venezia (Scuola S. Giovanni Evangelista, 6 dicembre 2015)
06-12-2015

Ritiro spirituale di Avvento

per le Scuole Grandi e le Arciconfraternite della città di Venezia[1]

(Venezia/Scuola S. Giovanni Evangelista, 6 dicembre 2015)

 

Meditazione del Patriarca mons. Francesco Moraglia

 

 

 

 

Vi ringrazio per l’invito che – come è stato accennato all’inizio – riguarda il Natale. E’ un Natale particolare, perché abbiamo di fronte la Porta santa del Giubileo che si aprirà a Roma il giorno dell’Immacolata (8 dicembre) e qualche giorno dopo, domenica 13 dicembre, si aprirà anche nella nostra chiesa particolare. Vorrei riflettere con voi proprio sul valore della misericordia di Dio.

E vorrei iniziare questa riflessione partendo da un testo di Isaia che il Papa ha recentemente considerato come partenza per l’omelia che ha tenuto a Nairobi, durante il suo viaggio in Kenya, lo scorso 26 novembre.

Il testo è quello di Isaia: “Così dice il Signore che ti ha fatto, che ti ha formato dal seno materno e ti soccorre: «Non temere, Giacobbe mio servo, Iesurùn che ho eletto – Iesurùn è un diminutivo che vuol dire «mio piccolo figlio» ed è riferito ad Israele – , poiché io verserò acqua sul suolo assetato, torrenti sul terreno arido. Verserò il mio spirito sulla tua discendenza, la mia benedizione sui tuoi posteri…»” (Is 44, 2-3).

Il Papa ha iniziato la sua omelia dicendo: “La parola di Dio parla alle profondità del nostro cuore. Oggi Dio ci dice che gli apparteniamo. Egli ci ha fatti, noi siamo la sua famiglia e per noi Lui sarà sempre presente. «Non temete – Egli ci dice -: io vi ho scelti e prometto di darvi la mia benedizione» (cfr Is 44,2-3)” (Papa Francesco, Omelia nella S. Messa al Campus dell’Università di Nairobi, 26 novembre 2015).

Perché ho citato questo passo di Isaia e l’inizio dell’omelia del Papa a Nairobi? Perché stiamo entrando nell’Avvento, tempo di misericordia, e allora dobbiamo comprendere meglio che cos’è la misericordia di Dio.

Molte volte pensiamo che la misericordia inizi col perdono di Dio; certamente la misericordia di Dio è questo, ma non è solo questo. La misericordia di Dio inizia prima del nostro peccato. Inizia quando Dio crea.

Senza dimenticare la felix culpa di Agostino, vorrei che coltivassimo una mentalità teologica e spirituale che tiene più in conto l’Oriente e che riscopre i testi scritturistici che, per noi, hanno un grande valore teologico e spirituale.

Fra pochi giorni celebreremo la solennità dell’Immacolata, ossia Colei che è stata salvata più degli altri, meglio degli altri. Salvata come noi, ma non permettendo che il peccato si impossessasse della persona di Maria neanche per un istante.

Dobbiamo riscoprire alcuni testi; io ve ne presenterò uno, ma ce ne sono altri. Il testo che vi indico è l’inno di Efesini. Ma potreste anche leggere l’inno ai Colossesi. Il tema è lo stesso: Dio ci ha scelti e ci ha amati prima della creazione.

Noi non siamo semplicemente dei salvati, ma siamo stati pensati come figli nel Figlio. Poi avviene il dramma del peccato, ma il dramma del peccato è una scelta dell’uomo. Il progetto di Dio, invece, contemplava la creazione a prescindere dal peccato.

Prima citavo la felix culpa. Sant’Agostino, come sappiamo, è un occidentale e appartiene al pensiero occidentale; se consideriamo anche la sua storia personale, conosciamo tutti il dramma della vita di Agostino e la fatica per arrivare finalmente alla conversione e conosciamo pure la vicenda di Agostino come teologo e soprattutto come vescovo.

Agostino si oppone al pelagianesimo e, poi, passa alla storia della Chiesa come doctor gratiae, per la lunga diatriba teologica che ebbe con i pelagiani. Di fronte all’esistenza di un peccato, che l’uomo non aveva la forza di superare con le sue sole forze umane, c’era necessità assoluta – guardate un po’ gli antipodi… – della grazia. La grazia è gratuita e ce n’è necessità assoluta. Questa è la situazione dell’uomo, impotente di fronte al tema della salvezza.

Ecco allora che Agostino combatte soprattutto con quel pensiero che, in qualche modo, riteneva che l’assenso dell’uomo venisse prima della grazia di Dio, al di fuori della grazia di Dio. Poi Dio avrebbe aiutato l’uomo… Agostino dice no, soprattutto nel momento in cui l’uomo dà il suo assenso: lì entra il discorso della grazia di Dio.

È il pensiero e la riflessione di Agostino che entra anche nella liturgia della notte di Pasqua; cantando il preconio pasquale si definisce, appunto, il peccato originale “felice colpa”, e ciò ha portato, noi occidentali, a pensarci solamente come a dei salvati.

Recuperiamo invece i testi scritturistici a cui accennavo prima e che non sono i soli; in tal senso abbiamo anche passi importanti nella Prima Lettera di Pietro e nell’inno del prologo del Vangelo di san Giovanni.

Certamente i testi di Colossesi ed Efesini sono “maggiori” in ordine a quello che Paolo riesce a dire e a proiettare; l’uomo è colui che ha radici eterne e l’atto di misericordia di Dio nei confronti dell’uomo avviene ben prima della salvezza dal peccato. E l’uomo non è solo creatura / elemento della creazione, ma è destinato a rapportarsi a Dio in termini filiali. L’uomo, infatti, è quella creatura che può chiamare Dio Padre.

All’inizio dell’anno giubilare mi preme sottolineare che questo è un Anno di conversione, di riconciliazione, di ritorno a Dio, di cammino penitenziale.

I segni del giubileo sono il pellegrinaggio – molti sono attratti dal pellegrinaggio a Roma – e il passare la Porta Santa, ma bisogna preparare l’evento perché non ci si soffermi a un puro rito o a un gesto; quel rito e quel gesto devono essere espressione di un cambiamento reale di vita.

Nell’omelia che vi citavo prima il Papa sottolinea: “…io vi ho scelti e prometto di darvi la mia benedizione”. Questo è il commento che Francesco fa del testo di Isaia 44.

Quando noi parliamo della misericordia di Dio e parliamo del peccato dell’uomo, non basta cogliere dalle sfumature la causa ultima dell’agire dell’uomo. Non ci si può fermare, in particolare, alla dimensione sociale del peccato. Eppure certa teologia è caduta in questa deriva: il peccato visto e spiegato solo in termini sociali.

Ci sono delle strutture di peccato, che generano peccato, ma quelle strutture sono anche generate a loro volta. Da dove parte tutto? Dal cuore dell’uomo. Quando parliamo di misericordia allora dobbiamo, dal punto di vista antropologico, andare all’origine del bene e del male, che è il cuore dell’uomo.

Cito ora l’evangelista Marco: “E (Gesù) diceva: «Ciò che esce dall’uomo è quello che rende impuro l’uomo. Dal di dentro infatti, cioè dal cuore degli uomini, escono i propositi di male: impurità, furti, omicidi, adultèri, avidità, malvagità, inganno, dissolutezza, invidia, calunnia, superbia, stoltezza. Tutte queste cose cattive vengono fuori dall’interno e rendono impuro l’uomo»” (Mc 7, 20-23).

Nell’anno giubilare della divina misericordia è necessario, quindi, andare all’origine dell’agire umano, sia nel bene che nel male, e cioè arrivare al nostro cuore. Cuore che, in senso biblico, indica e significa l’inizio della vita personale, là dove ha principio la libertà, là dove avvengono le prime scelte dell’uomo.

Se vogliamo contemplare in modo pieno il volto misericordioso di Dio, senza parzialità e secondo la totalità del mistero della divina misericordia, dobbiamo giungere – seguendo la parola di Dio – dove tutto ha il suo principio, laddove sgorga l’amore misericordioso di Dio, cioè l’atto creativo di Dio. È lì che inizia la misericordia di Dio. Perché Dio non crea perché ha bisogno che qualcuno gli dia lode, altrimenti non sarebbe Dio…

La scuola francescana – che è riuscita a cogliere al meglio questa impostazione teologica, soprattutto attraverso le riflessioni teologiche di Bonaventura e di Scoto – si concentra sul bene, sull’amore, perché Dio è amore e vuole che esista l’amore anche al di fuori di sé. Vuole che ci sia un essere, al di fuori di Lui, libero e capace di amore. Dio crea perché è buono, ed è così buono – lo ripeto – che vuole che il bene sia anche al di fuori di Lui.

Dio vuole che ci sia un essere capace di amarlo in modo totale e libero, per quanto è consentito a un essere creaturale. Ecco qui l’umanità di Cristo. L’umanità di Cristo è realtà creata e, quindi, non infinita, altrimenti non sarebbe uomo, però è quell’umanità che, considerando le dimensioni creaturali, è capace di un amore totale nei confronti di Dio.

Pensate a questo frammento di amore totale e libero che entra in un mondo che volontariamente si è allontanato da Dio. Allora, capiamo che la croce non poteva non esserci.

Se voi avete in una società di malaffare, di illegalità, di ingiustizia e di violenza una persona che si oppone toto corde a questa situazione di malvagità, di illegalità e di ingiustizia è chiaro che quella persona ha le ore segnate.

Il libro della Sapienza mette in bocca queste parole ai malvagi: “Tendiamo insidie al giusto, che per noi è d’incomodo e si oppone alle nostre azioni; ci rimprovera le colpe contro la legge             e ci rinfaccia le trasgressioni contro l’educazione ricevuta. Proclama di possedere la conoscenza di Dio e chiama se stesso figlio del Signore. È diventato per noi una condanna dei nostri pensieri; ci è insopportabile solo al vederlo, perché la sua vita non è come quella degli altri, e del tutto diverse sono le sue strade” (Sap 2, 12-15).

C’è, quindi, qualcuno che dice: “Guardate che il bene è possibile farlo”. E allora il giusto, in una società ingiusta, in un contesto ingiusto, diventa insopportabile.

La croce di Cristo è il frutto dell’esistenza di un frammento creaturale, appunto l’umanità di Cristo, che ha scelto totalmente e pienamente Dio in un mondo che si è allontanato da Lui. Non poteva così non esserci la croce.

In questa prospettiva la scuola francescana ci dice che Dio crea non perché ha bisogno che qualcuno lo adori; non sarebbe Dio e non potrebbe essere Dio uno che ha bisogno di qualcosa… Dio, per definizione, non ha bisogno di nulla e di nessuno, però Dio è così buono che vuole che ci sia il bene non solo in Lui, in quella unità eterna che è la SS. Trinità – Padre, Figlio e Spirito Santo -, ma vuole che ci sia il bene anche al di fuori di sé; una capacità di amore che, evidentemente, sarà limitata – perché propria di un essere creaturale – ma quell’essere creaturale potrà amare in modo totale libero e pieno.

Ecco perché, per parlare della divina misericordia all’inizio dell’anno giubilare, non possiamo limitarci alla sola remissione del peccato, ma dobbiamo andare alle sorgenti ultime, dove veramente sgorga l’amore di Dio misericordioso, e cioè l’atto creativo.

E per parlare della divina Misericordia, non è ancora sufficiente giungere dove inizia la vita morale dell’uomo, al cuore, là dove l’uomo dice a Dio il suo sì oppure il suo no. È necessario fare un passo ulteriore, evitando ogni riduzionismo antropoteologico che, pure, avviene sempre quando l’uomo – una logica limitata, una logica creata – parla di una realtà infinita.

Quando si parla di Dio, il nostro linguaggio va dilatato all’infinito e va purificato di quegli aspetti che ogni categoria porta come limite. Ad esempio: quando io parlo della paternità di Dio, devo purificare questa categoria creaturale da tutti i limiti della paternità umana, fosse anche la più alta.

Il punto del nostro discorso è che, comunque, noi proveniamo da Dio; noi dipendiamo dal suo atto creatore, dal gesto di Dio e quel gesto è proprio ed esclusivo di Dio, appartiene a Lui solo, è soltanto suo. Per noi l’atto creatore di Dio è il vero inizio della misericordia.

Lascio alla vostra riflessione personale quel testo di Efesini a cui ho fatto cenno e ritroverete tutta la ricchezza del pensiero di san Paolo che coglie l’uomo come colui che ha le sue radici nell’infinito di Dio.

Potreste leggere con profitto anche l’enciclica di Benedetto XVI Spe salvi, – al n. 2 e al n. 3 – dove il Papa cita proprio la lettera agli Efesini e ricorda come Paolo dica ai cristiani di Efeso che prima erano senza speranza ma ora, che hanno incontrato Gesù Cristo, sono diventati uomini e donne che – continuando a vivere nel mondo, nelle contraddizioni del mondo – hanno superato questa disperazione perché sanno finalmente da dove vengono e dove vanno.

All’inizio della lettera agli Efesini, Paolo – probabilmente il testo era un’antica preghiera della Chiesa, forse una sorta di preghiera eucaristica introdotta nella lettera – scrive così: “Paolo, apostolo di Cristo Gesù per volontà di Dio, ai santi che sono a Èfeso credenti in Cristo Gesù: grazia a voi e pace da Dio, Padre nostro, e dal Signore Gesù Cristo. Benedetto Dio, Padre del Signore nostro Gesù Cristo, che ci ha benedetti con ogni benedizione spirituale nei cieli in Cristo. In lui ci ha scelti prima della creazione del mondo per essere santi e immacolati di fronte a lui nella carità” (Ef 1, 1-4).

Noi siamo stati scelti da Dio prima del peccato di Adamo. Dio non ha pensato ad un rapporto filiale con lui dopo il peccato, ma già prima. Il peccato poteva anche non esserci ma il progetto di Dio c’era.

Le prime parole che abbiamo citato instaurano la correlazione tra noi e Dio. Siamo chiamati a diventare interlocutori del Creatore che è, anche, nostro padre, capaci di benedirlo come Lui ci benedice. Ecco la misericordia di Dio, che viene prima del nostro peccato.

“In lui ci ha scelti prima della creazione del mondo per essere santi e immacolati di fronte a lui nella carità” (Ef 1,4). Ci ha scelti nella carità, ci ha scelti nell’amore, ci ha resi suoi interlocutori.

E poi l’inno prosegue: “…predestinandoci a essere per lui figli adottivi mediante Gesù Cristo, secondo il disegno d’amore della sua volontà, a lode dello splendore della sua grazia, di cui ci ha gratificati nel Figlio amato. In lui, mediante il suo sangue, abbiamo la redenzione, il perdono delle colpe, secondo la ricchezza della sua grazia. Egli l’ha riversata in abbondanza su di noi con ogni sapienza e intelligenza, facendoci conoscere il mistero della sua volontà…” (Ef 1, 5-9).

C’è anche questo fatto: la storia dell’uomo ha preso una determinata direzione, quella del peccato. Ma il peccato non era obbligatorio. Di fatto, c’è stato… Il mistero della sua volontà, però, qual è? Ricondurre al Cristo tutte le cose, quelle dei cieli e quelle sulla terra; è il concetto della anakephalaiosis, la ricapitolazione di tutto in Cristo. E se poi leggete anche l’inno dei Colossesi trovate spesso le parole “in lui”, “per mezzo di lui”, “in vista di lui”.

Quando si parla di Cristo – usando la filosofia aristotelica – si tratta allora della causa efficiente, della causa materiale, della causa finale della creazione. E quindi Cristo è la causa materiale e la causa formale, è la causa finale e la causa efficiente del mondo.

Quando noi leggiamo il capitolo 25 dell’evangelista Matteo – il giudizio finale – scopriamo che Lui è il giudice ma anche il contenuto medesimo del giudizio. Il testo di Matteo non mira a  stemperare Gesù Cristo nell’uomo, ma è per comprendere come l’uomo sia il vertice della creazione; assume il suo significato ultimo nel Cristo, perché Cristo è la causa finale, è la causa efficiente, la causa formale, la causa materiale della creazione “…perché in lui furono create tutte le cose nei cieli e sulla terra… Tutte le cose sono state create per mezzo di lui e in vista di lui. Egli è prima di tutte le cose e tutte in lui sussistono” (Col 1, 16-17).

Il testo degli Efesini ancora continua: “In lui siamo stati fatti anche eredi, predestinati -secondo il progetto di colui che tutto opera secondo la sua volontà – a essere lode della sua gloria…” (Ef 1, 11-12). Predestinati secondo il suo progetto. Noi siamo eredi di Dio, siamo dei predestinati. Le nostre radici sono eterne.

Anche quando facciamo esperienza della precarietà, o del limite o della contingenza, in Lui siamo stati resi eredi e predestinati secondo il progetto di Colui che tutto opera secondo la sua volontà. Siamo stati predestinati “a essere lode della sua gloria, noi, che già prima abbiamo sperato nel Cristo. In lui anche voi, dopo avere ascoltato la parola della verità, il Vangelo della vostra salvezza, e avere in esso creduto, avete ricevuto il sigillo dello Spirito Santo che era stato promesso, il quale è caparra della nostra eredità, in attesa della completa redenzione di coloro che Dio si è acquistato a lode della sua gloria” (Ef 1, 12-14).

Concludo dicendo come l’antropologia cristiana abbia una radice ultima che è la teologia cristiana. E questo, per molti versi, rende l’antropologia cristiana – nella sua pienezza – di difficile compatibilità con alcune antropologie filosofiche e culturali che oggi vanno per la maggiore. Grazie.

 

[1] Il testo mantiene volutamente lo stile di conversazione informale.