Intervento del Patriarca sul tema “La Chiesa e la nascita degli ospedali” in occasione della visita alla Scuola Grande di San Marco (Venezia, 12 ottobre 2018)
12-10-2018

Incontro e visita in occasione dei 580 anni della costituzione

della Scuola Grande di San Marco

(Venezia, 12 ottobre 2018)

Intervento del Patriarca Francesco Moraglia

sul tema “La Chiesa e la nascita degli ospedali”

 

  

Stimate Autorità, gentili Signore e Signori,

ringrazio dell’invito, a cui volentieri ho aderito, in occasione dei 580 anni di costituzione in questa sede della Scuola Grande intitolata all’evangelista e nostro patrono san Marco; è questa un’istituzione per la verità dalle origini ancor più antiche (la confraternita risale, infatti, al 1260) e che ha, quindi, attraversato secoli e secoli – nelle alterne vicende – della storia di questa nostra città, così profondamente e popolarmente segnata dall’esistenza e dall’attività multiforme di numerose e benemerite Scuole Grandi e Confraternite.

Un momento importante del nostro incontro sarà la visita alla mostra “Arte, fede e medicina nella Venezia del Tintoretto” in cui il bello e il bene – come suggerisce eloquentemente il titolo – ci accompagneranno. Ma entro subito nel merito del tema che mi è stato affidato: “La Chiesa e la nascita degli ospedali”.

Tali spazi, non solo fisici, sono la risposta che la comunità religiosa e civile ha dato, nel tempo, alla multiforme fragilità umana che siamo soliti chiamare “malattia”. Gli ospedali – che per noi, uomini e donne del XXI secolo -, rappresentano qualcosa di “scontato”, anzi di “dovuto” e che ritroviamo comunemente nel profilo urbano delle nostre città – non sono sempre esistiti; hanno avuto anch’essi una loro origine e un loro sviluppo, esprimendo le ricchezze e le povertà delle diverse epoche.

Si danno periodi ben precisi in cui le strutture destinate a curare la popolazione ammalata (i nostri ospedali) si sono, via via, costituite e, progressivamente, sviluppate progredendo anche in base alle nuove acquisizioni, sia della scienza sia delle tecniche mediche.

Il Dizionario di Medicina per l’anno 2010 – edito dall’Istituto Treccani – alla voce “ospedale” riporta questa descrizione: “Edificio, o complesso di edifici, destinato all’assistenza sanitaria dei cittadini e quindi adeguatamente attrezzato per il ricovero, il mantenimento e le cure, sia cliniche sia chirurgiche, di ammalati o feriti”. E poi, ancora, precisa: “L’idea di riunire e curare i malati in luoghi particolarmente attrezzati sembra connessa col primo sviluppo della vita sociale”.

Come già accennato, le varie epoche si sono rapportate in modi diversi nei confronti della malattia e dei malati, ossia uomini, donne e bambini bisognosi d’aiuto. Non intendiamo qui offrire uno studio storico rigoroso sulla nascita e sviluppo di tale istituzione ma ci limiteremo ad indicarne, per accenni, lo sviluppo nelle differenti epoche.

Dalla stessa fonte apprendiamo che – prima della venuta di Cristo – in Egitto, in Grecia e a Roma i malati venivano accolti in luoghi che erano destinati al culto: i templi di Iside e Serapide in Egitto e di Esculapio in Grecia e a Roma.

Nel I secolo dopo Cristo, nella Roma imperiale, presso le famiglie patrizie o comunque benestanti, invalse la prassi di ricoverare i liberti e gli schiavi malati in luoghi appositamente adibiti per accoglierli; tali luoghi erano detti valetudinaria, medicatrinae e iatreiae.

L’epoca cristiana vide crescere l’attenzione o, meglio, la cura della comunità nei confronti dei malati, dei portatori di handicap e di coloro che erano segnati nel corpo da fragilità legate a malattie contratte o che portavano in sé dalla nascita.

Il cristiano, ovviamente, mostra nei confronti dei sofferenti una sensibilità particolare poiché la misericordia fa parte del cuore del messaggio evangelico; la tenerezza di Dio verso l’uomo si manifesta in Gesù che è la pienezza della Rivelazione, ovvero della misericordia del Padre che si china sull’umanità. A riscontro di ciò si può citare l’intero Evangelo che, in ogni sua pagina, pulsa del comandamento divino della misericordia.

Qui richiamiamo due testi alquanto noti; ognuno, però, può facilmente andare ad altre pagine dell’Antico e del Nuovo Testamento non meno significative e ricche.

Il primo testo – che possiamo rileggere insieme – è la parabola del “buon samaritano”. La pericope di Luca è nota: due viandanti – un sacerdote e un levita – non si fermano di fronte ad un uomo ferito e abbandonato sul ciglio della strada; invece, un samaritano (persona invisa ai giudei) si ferma e soccorre il malcapitato.

«“Gli si fece vicino, gli fasciò le ferite, versandovi olio e vino; poi lo caricò sulla sua cavalcatura, lo portò in un albergo e si prese cura di lui. Il giorno seguente, tirò fuori due denari e li diede all’albergatore, dicendo: ‘Abbi cura di lui; ciò che spenderai in più, te lo pagherò al mio ritorno’. Chi di questi tre ti sembra sia stato prossimo di colui che è caduto nelle mani dei briganti?”. Quello rispose: “Chi ha avuto compassione di lui”. Gesù gli disse: “Va’ e anche tu fa’ così”» (Lc 10,34-37).

Il secondo passo è quello del giudizio finale in cui il Figlio dell’uomo darà il suo verdetto a partire della carità che è la forma cristiana della solidarietà: «Allora il re dirà a quelli che saranno alla sua destra: “Venite, benedetti del Padre mio, ricevete in eredità il regno preparato per voi fin dalla creazione del mondo, perché ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere, ero straniero e mi avete accolto, nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, ero in carcere e siete venuti a trovarmi”. Allora i giusti gli risponderanno: “Signore, quando ti abbiamo visto affamato e ti abbiamo dato da mangiare, o assetato e ti abbiamo dato da bere? Quando mai ti abbiamo visto straniero e ti abbiamo accolto, o nudo e ti abbiamo vestito? Quando mai ti abbiamo visto malato o in carcere e siamo venuti a visitarti?”. E il re risponderà loro: “In verità io vi dico: tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me”» (Mt 25,34-40).

Il vero spirito evangelico, che dovrebbe animare ogni cristiano di fronte alla sofferenza e alla malattia del prossimo, si manifesta nei santi della carità che hanno saputo realmente “inventare” modi per sostenere e aiutare i sofferenti secondo le possibilità della loro epoca.

Un innovatore nell’aiutare e curare i malati fu Camillo de Lellis (1550-1614); il suo stile o, meglio, la sua passione e la sua carità ci vengono attestati dalle precise indicazioni che impartiva ai suoi figli spirituali: «Quando la sera tornava in convento – scrive Antonio Sicari – chiamava i suoi frati in capitolo, metteva un letto in mezzo alla sala, ammucchiava materassi e coperte, chiedeva a uno di distendersi e poi insegnava agli altri come si rifaceva un letto senza disturbare troppo il malato, come si cambiava la biancheria, come bisognava atteggiare il volto verso i sofferenti. Poi li faceva provare e riprovare. Ogni tanto gridava: ”Più cuore, voglio vedere più affetto materno”. Oppure: ”Più anima nelle mani“» (Antonio Sicari, Ritratti di santi, Jaca Book 1988, pag. 61).

Di fronte alle strutture sanitarie dell’epoca – di cui Camillo ebbe modo di usufruire, conoscendole quindi, durante alcuni suoi ricoveri – avvertì per primo la necessità di elaborare una tecnica di sostegno dei malati che li aiutasse, in base alle scarse nozioni mediche del tempo, ad affrontare le differenti situazioni di sofferenza e disagio. A tale proposito, presso l’Archivio di Stato di Milano, possono essere consultate le “Regole per ben servire i malati”.

Camillo, illetterato e capace di accedere all’ordinazione sacerdotale solo per meriti acquisiti “sul campo”, divenne il fondatore della assistenza infermieristica la cui testimonianza – come detto – è riscontrabile consultando le appena citate “Regole per ben servire i malati”, una preziosa testimonianza di tecniche infermieristiche finalizzate al benessere del malato secondo le conoscenze del tempo.

Comprendiamo, allora, come con il progressivo affermarsi della cultura orientata in senso cristiano l’ospedale – che non poteva ancora contare su una vera scienza medica – si sia originariamente affermato come luogo di carità in cui si viveva e ci si impegnava prendendosi cura della persona considerata nella sua dignità di figlio o figlia di Dio e come qualcuno che, comunque e sempre, appartiene alla società e non può essere dimenticato e abbandonato. In sintesi, si percepiva che il malato era un fratello, colui che – in ogni modo – mi apparteneva.

Con l’avvento dell’era cristiana, l’assistenza agli infermi acquista, indubbiamente, un significato più caritativo che medico-sanitario; nello stesso tempo, si aiutavano anche coloro che, occasionalmente (ad esempio i pellegrini), o in modo abituale, per situazioni di indigenza (i poveri), non potevano contare sull’aiuto di una propria famiglia o, in senso più ampio, di una comunità di appartenenza

Il termine “nosocomio”, che fu per primo usato da san Gerolamo, deriva dal tardo greco νοσοκομεον, formato da νοσο (νόσος sta per “malattia”) e κομεον (che proviene dal verbo κομέω che sta per “curare”).

Troviamo questi luoghi di cura, sempre più frequentemente, nelle vicinanze di monasteri, diaconie o dove sorgevano le abitazioni dei vescovi, di preferenza lungo le grandi strade di comunicazione percorse da pellegrini (gli itinerari più frequentati dell’epoca). Tra questi ospizi merita particolare menzione quello fondato da san Benedetto presso Salerno, poiché sarà all’origine di una scuola medica di grande notorietà.

Ancora dalla voce “ospedale” dell’enciclopedia Treccani apprendiamo che “un notevole impulso fu impresso all’organizzazione ospedaliera dalla costituzione di ordini cavallereschi, che assunsero come compito fondamentale l’assistenza agli infermi. Il primo di tali ordini fu quello di N.S. della Scala che a Siena diede vita a un ospedale proprio nella seconda metà del 9° sec.; grande importanza assunsero in questo campo l’ordine dei Terziari di san Francesco e di s. Domenico e quello di S. Spirito, ma il fiorire degli ordini ospedalieri è legato alle Crociate e ai loro problemi logistici”.

Con il sorgere della modernità e il progresso – seppur inizialmente lento – della scienza medica, l’istituzione “ospedale” perde la sua connotazione di luogo in cui soprattutto si esercita la carità proponendosi sempre più come vero e proprio luogo di cura, ma questo non sempre avviene a causa delle scarse nozioni scientifiche della medicina. Se in modo progressivo si attenuò il clima di accoglienza, accompagnamento e sostegno del paziente – ossia di carità – non sempre ne guadagnò l’azione prettamente medica.

In tale periodo, certamente, si perseguì la funzione preventiva dell’ospedale, ovvero evitare che le malattie si diffondessero tra la popolazione, pensiamo alle pandemie che, nel Medioevo, decimarono intere popolazioni e territori.

Per limitarci a Venezia, ricordiamo la peste del 1575/77 (che a Milano, per la carità mostrata dall’arcivescovo, prese il nome di “peste di san Carlo”) e quella del 1630 di cui parla anche il Manzoni ne I promessi sposi; nella nostra città la prima epidemia ebbe termine quando fu edificata (nell’isola della Giudecca) la basilica dedicata al Santissimo Redentore, la seconda dopo che la Serenissima Repubblica con solenne voto si impegnò ad edificare la Basilica dedicata alla Madonna della Salute.

In quegli anni la malattia veniva contrastata cercando di arginarne la diffusione sociale del morbo e – poiché la scienza non disponeva di mezzi adeguati per guarire i malati – ci si limitava, di fatto, a costituire “cordoni sanitari” e spazi di quarantena, separando le persone già infette da quelle ancora sane. Ma purtroppo, ignorando quasi del tutto le modalità di propagazione delle malattie, si finiva per rendere i luoghi di cura degli spazi in cui, ancor più facilmente, si propagavano le infezioni e, quindi, si moriva. Le malattie infettive furono così denominate malattie “nosocomiali”.

La geniale scoperta di Pasteur rese possibile l’istituzione di metodi razionali di profilassi e terapia che consentirono di procedere al risanamento degli ambienti ospedalieri, rendendoli cosi più idonei allo sfruttamento delle sempre più progredite risorse della medicina.

A noi interessa ribadire il legame stretto tra epoca cristiana e il costituirsi degli ospedali e di strutture simili; dove l’accoglienza dei bisognosi non avveniva più secondo criteri “soggettivi” e, in qualche modo selettivi, ovvero tendenti a discriminare e ad escludere (ad esempio i “nostri” malati…) ma secondo un criterio di apertura universale, ossia, nei confronti di tutti e sempre.

Una determinata cultura, qualunque sia, plasma una comunità suscitando e regolando rapporti sociali e, altresì, attestando valori che essa riconosce come espressivi del vero, del ben e del bello.

Una cultura che nasce ed è espressione del bene ricercato, voluto e attuato, aprendosi alla concretezza e al realismo del quotidiano – la vita di tutti i giorni – non può non chinarsi sull’uomo che soffre nello spirito e nel corpo. Ritornano qui le opere di misericordia corporali e spirituali; non solo quelle corporali o quelle spirituali ma, insieme, quelle spirituali e corporali perché l’uomo è fatto di spirito, di anima e di corpo.

A una tale scelta valoriale, sul piano umano, il cristiano unisce la weltanschauung che proviene dal Vangelo e, per la quale, ciò che è cristiano non “aggiunge” qualcosa all’umano già costituito in sé poiché Gesù Cristo è Colui che viene prima di tutto.

Tutto, infatti, è stato creato in Lui, per Lui e in vista di Lui e, quindi, non è immaginabile un umano compiuto in sé a prescindere da Gesù Cristo e seguito da un quid cristiano che si “aggiunge”, appunto, a ciò che è già umano in sé. No, Gesù Cristo – nella sua vera umanità – è l’unico progetto reale ed esistente di uomo in Dio.

Cosa si vuol dire? È solo una finezza teologica e per addetti ai lavori? No, si vuol dire semplicemente che una vera antropologia cristiana riconosce e promuove sempre ciò che è umano e cresce fino alla pienezza ma a partire dal progetto di Dio, tanto che non si può parlare di carità non riconoscendo e rispettando la giustizia.

Il discepolo, attraverso la fede, è il primo a riconoscere, a rispettare, a promuovere l’umano sapendo, però, che il disegno originario del Padre è Gesù Cristo nella sua vera e reale divina/umanità. Rileggiamo insieme l’inno della lettera agli Efesini, in cui ci viene svelato il progetto divino:

“Benedetto Dio, Padre del Signore nostro Gesù Cristo, che ci ha benedetti con ogni benedizione spirituale nei cieli in Cristo. In lui ci ha scelti prima della creazione del mondo per essere santi e immacolati di fronte a lui nella carità, predestinandoci a essere per lui figli adottivi mediante Gesù Cristo, secondo il disegno d’amore della sua volontà…” (Ef 1,3-5).

Questo si deve riscontrare, in modo puntuale, anche nel momento in cui si è chiamati a soccorrere i sofferenti – in situazioni di emergenza o bisogno ordinario – poiché la fede rispetta l’umano, seppure chiamata ad andare oltre ciò che il mondo, in modo riduttivo, identifica come umano.

Il Vangelo insegna che le cure devono esser prestate con generosità – secondo le proprie forze e risorse – ed elargite non restringendo a priori il numero dei destinatari per motivi soggettivi o ideologici.

L’universalità del soccorso, non l’aiuto dato ad alcuni escludendone altri, non solo ai consanguinei o a quelli della propria parte politica ma a tutti, nel nome di Dio che è Padre comune, è la nota qualificante dei discepoli di Gesù, come insegna il Vangelo.

Al termine del “discorso della montagna” ci è indicata la novità del Vangelo, cioè Gesù Cristo. L’evangelista Matteo si esprime attraverso brevi frasi che, proprio per questo, risultano ancor più efficaci; parole semplici che, da sole, hanno la forza di “ribaltare” il modo comune di sentire degli uomini e delle donne: “…siate figli del Padre vostro che è nei cieli; egli fa sorgere il suo sole sui cattivi e sui buoni, e fa piovere sui giusti e sugli ingiusti. Infatti, se amate quelli che vi amano, quale ricompensa ne avete? Non fanno così anche i pubblicani? E se date il saluto soltanto ai vostri fratelli, che cosa fate di straordinario? Non fanno così anche i pagani? Voi, dunque, siate perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste” (Mt 5,45-48).

È significativo che san Basilio Magno (329-379) – uno fra i grandi Padri della Chiesa, conosciuto come fra i massimi teologi dell’antichità e vescovo di Cesarea di Cappadocia – fosse conosciuto, oltre che per il suo sapere teologico, anche o soprattutto per la sua carità verso i malati, per il suo modo di stare personalmente con loro, tanto da arrivare a fondare un ospedale nella sua città vescovile.

San Basilio è universalmente conosciuto come uno dei massimi teologi della Chiesa, per le sue numerose opere e dispute teologiche con ariani e macedoniani nonché per essersi opposto, con forza, allo strapotere dell’imperatore Giuliano. Non molti, però, sanno che fu anche uomo di grandissima carità, uno dei primi organizzatori della carità; egli, infatti, arrivò perfino a far costruire una cittadella della carità chiamata “Basiliade” con locande, ospizi, ospedale e lebbrosario e proprio questa – giova rimarcarlo – fu la sua più grande opera che gli valse, appunto, il titolo di Magno.  

San Basilio esprime così, con la vita, come la cultura e la carità, la ricerca dell’ortodossia della fede e il soccorrere l’uomo sofferente non sono in opposizione fra loro, al contrario, convivono – e, di fatto, hanno convissuto – nella stessa persona. Il grande vescovo di Cesarea di Cappadocia, in modo mirabile, seppe unire nella sua persona l’amore per la vita contemplativa, l’amore per lo studio, la cultura, la difesa della retta dottrina insieme all’amore e alla vicinanza nei confronti dell’uomo concreto che soffre; ne seppe asciugare le lacrime, curandone le piaghe del corpo.

È, inoltre, significativo riscontrare come, in periodi in cui la donna non aveva alcuna visibilità sociale, la Chiesa seppe esprimere figure di donne che, in quei tempi, ebbero doti e capacità d’imporsi nell’impegnativo ambito della carità verso i deboli, i malati e quanti venivano giudicati inutili o addirittura pesi per la società (malati, pellegrini e orfani).

Ricordo, qui, la bella figura di Elisabetta di Turingia (1207-1231) che, rimasta vedova di Ludovico IV – detto il santo -, ancora giovanissima entrò nel Terzo Ordine Francescano e si dedicò totalmente alle opere di carità, guidata spiritualmente dal padre spirituale, il teologo Corrado di Marburgo; Elisabetta condusse una vita ritirata nell’ospedale che aveva fatto erigere, proprio a Marburgo, nel 1228, dove si dedicò esclusivamente alla preghiera e alla cura dei malati.

E’ l’esempio di una fragile donna che si dedica a un’impresa che, in quel periodo storico, non era neanche immaginabile.

C’è una bella testimonianza del suo confessore, il teologo Corrado: “Ella aveva sempre consolato i poveri, ma da quando fece costruire un ospedale presso un suo castello, e vi raccolse malati di ogni genere, da allora si dedicò interamente alla cura dei bisognosi… Aveva preso l’abitudine di visitare tutti i suoi malati personalmente, due volte al giorno, al mattino e alla sera. Si prese cura diretta dei più ripugnanti. Nutrì alcuni, ad altri procurò un letto, altri portò sulle proprie spalle, prodigandosi sempre in ogni attività di bene, senza mettersi tuttavia per questo in contrasto con suo marito… A Marburgo costruì un ospedale ove raccolse i malati e gli invalidi e servì alla propria mensa i più miserabili ed i più derelitti…” (Dalla «Lettera» scritta da Corrado di Marburgo, direttore spirituale di santa Elisabetta al pontefice, anno 1232; A. Wyss, Hessisches Urkundenbuch I, Lipsia 1879, 31-35).

Come abbiamo visto, tutto, alla fine, è saldamente nelle mani di Dio che sa suscitare uomini e donne all’altezza delle sfide dei tempi; è bello e fa riflettere come non solo alcune categorie filosofiche nascano o si sviluppino in ambito teologico e poi arricchiscano la riflessione antropologica e culturale ma anche delle realizzazioni che hanno a che fare con il bene e la solidarietà fra gli uomini.

Dio – è il suo stile – nel silenzio, di nascosto, prepara quanti apriranno nuove strade affinché il bene della carità sia presente e cresca non solo nella Chiesa ma anche nel mondo.