Intervento del Patriarca sul tema “Etica e fragilità” nell'ambito dell'evento “Le giornate della Serenissima. La salute dei cittadini” (Venezia / Scuola Grande di San Marco, 24 ottobre 2020)
24-10-2020

“Le giornate della Serenissima. La salute dei cittadini”

 (Venezia / Scuola Grande di San Marco, 24 ottobre 2020)

Intervento del Patriarca di Venezia Francesco Moraglia sul tema “Etica e fragilità”

 

 

La fragilità dell’uomo si sta manifestando non solo nei paesi del Terzo e Quarto Mondo ma anche nel nostro evoluto Occidente. L’uomo così si presenta fragile, strutturalmente fragile, come fragile si mostra la società a cui ha dato forma.

È significativo un reportage diffuso all’inizio della pandemia in cui viene presentata la situazione socio-culturale degli Stati Uniti, il Paese “leader” a livello mondiale. Nel reportage non appare il tradizionale ottimismo yankee; al contrario, si “respira” un pessimismo non soltanto “personale” ma “sociale”.

Un editoriale del New York Times così presenta le fragilità della società americana: “La pandemia di Coronavirus ha messo a nudo ancora una volta la natura incompleta del progetto americano – la grande distanza tra le realtà e i valori enunciati nei suoi documenti fondativi (…). L’attuale crisi ha rivelato che gli Stati Uniti sono un posto dove i giocatori di basket professionisti possono ottenere un test rapidamente, mentre gli operatori sanitari no; in cui i ricchi possono ritirarsi nella sicurezza delle loro seconde case, affidandosi per la consegna del cibo a lavoratori che non possono prendere permessi pagati per malattia; in cui i bambini delle famiglie a basso reddito faticano a connettersi alle aule digitali dove dovrebbero fare lezione” (“The America We Need”, Editoriale del New York Times del 17 aprile 2020).

Diseguaglianze personali e sociali appaiono, quindi, ben marcate; cito, a modo di esempio, alcuni quartieri di Los Angeles – Beverly Hills o Bel Air – in cui gli accessi sono regolati da codici a barre o password. Sì, tanto lusso, tanta privacy, tanti “contatti” sul web, ma anche tanta solitudine, poche relazioni umane e, quindi, uomini e donne a rischio e fragili.

Cos’è Beverly Hills? È un quartiere benestante in cui la gente vive nel comfort massimo fra ville, macchine lussuose, strade ben curate: negozi, boutique e ristoranti di lusso. Alberghi esclusivi, chiese, parchi, il municipio, ma nessuna industria, niente ospedali e cimiteri. Per questo si dice che “nessuno nasce e nessuno muore a Beverly Hills“.

Questa immagine dell’Occidente evoluto (pur con i necessari distinguo) ci chiede di riflettere sul tipo di società che si può costruire; la società della pura astrazione. Abbiamo, infatti, appena detto che “nessuno nasce e nessuno muore a Beverly Hills”. Ora, è chiaro che magari nessuno di noi abiterà mai a Beverly Hill, però rimane nell’immaginario di molti come un’icona, come qualcosa da ammirare e da desiderare.

Covid-19 ci ha trovato psicologicamente e socialmente non preparati, deboli e non resilienti su tale versante. Fragili e impreparati, sia dal punto di vista psicologico-mentale (non ce l’aspettavamo) che emotivo (poco resilienti).

Certo, Beverly Hills è l’ostentazione di uno stile di vita e, in un certo senso, un’utopia ma è anche il prodotto reale della ricchezza per pochi elevata a status symbol di una società esclusiva e non inclusiva.

Le acquisizioni e le comodità della tecnoscienza – va detto – portano a rinchiudersi in sé. Così molti si sono illusi d’avere una totale copertura e, invece, si sono ritrovati fragili e vulnerabili sul piano personale e sociale.

 

Tutti ricordiamo i mezzi militari che lasciavano la città di Bergamo che non era più in grado di dar sepoltura ai suoi morti. E tutto ciò proprio mentre, con sofisticate tecniche manipolative, non di rado non rispettose della persona, ci si illudeva d’aver finalmente messo le mani dove inizia la vita.

La ripartenza è un imperativo! Ma i tempi dell’economia non sono quelli di Covid-19. C’è poi il dramma di una politica che fatica ad avere una visione che, però, oggi è necessario avere. Riscoprire i limiti (il limite!) non vuol dire rinunciare ad essere uomini (anzi!), ma vuol dire ripensare il paradigma dell’uomo.

L’umiltà non è solo virtù cristiana, è anche virtù civile e, prima ancora, umana; essa dice la verità dell’uomo, posto al centro della storia come fine e non come mezzo, in relazione con l’Altro e con gli altri.

La società, lo Stato, le istituzioni possono esser fondate sull’efficientismo (che non è l’efficienza), la competitività (che non è il merito), la performance (che non è la laboriosità). È decisivo, soprattutto oggi, coniugare solidarietà e sussidiarietà, rappresentanza e governabilità, interesse della persona e bene comune, salute intesa come bene personale e sociale.

La parte, poi, non è il tutto. Il privato non è il pubblico, eppure entrambi cooperano al bene. L’uomo però – ogni uomo – va rispettato come soggetto, come soggetto in relazione.

Il bene comune non è la somma dei beni individuali, né è il bene della maggioranza; è il bene comune, ossia il bene di tutti. Dopo Covid-19 ci è chiesto di superare il pensiero funzionalista ed efficientista e di ritornare ad un pensiero che si pone le domande sui fini e sul perché delle cose.

Parlare di etica, di fragilità, di relazioni umane, di salute della persona – anche come bene della società (specialmente in tempo di pandemia) – vuol dire sollevare la questione della responsabilità personale e sociale che ha ricadute sia in ambito culturale, sia politico, sia religioso. Pensiamo alle “regole” e alle “disposizioni” che stiamo osservando ma che non possono esaurire il nostro impegno nei confronti della ripartenza da tutti invocata.

Il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, in un recente incontro internazionale e invocando maggiore attenzione per evitare il contagio, ci ha ricordato che “la libertà non è fatto individuale, ma qualcosa che si costruisce insieme agli altri con responsabilità e collaborazione”.

Insomma, dobbiamo ripartire dall’etica – sì, dalla questione etica -, perché altrimenti il nostro Paese non ha futuro e non ha neppure il presente. Ovviamente – lo capite – non si tratta di costruire uno “Stato etico”.

Richiamo ora alcune riflessioni di Giovanni Paolo II: “Urge (…), per l’avvenire della società e lo sviluppo di una sana democrazia, riscoprire l’esistenza di valori umani e morali essenziali e nativi, che scaturiscono dalla verità stessa dell’essere umano ed esprimono e tutelano la dignità della persona: valori, pertanto, che nessun individuo, nessuna maggioranza e nessuno Stato potranno mai creare, modificare o distruggere, ma dovranno solo riconoscere, rispettare e promuovere. Occorre riprendere, in tal senso, gli elementi fondamentali della visione dei rapporti tra legge civile e legge morale… La legge civile deve assicurare per tutti i membri della società il rispetto di alcuni diritti fondamentali, che appartengono nativamente alla persona e che qualsiasi legge positiva deve riconoscere e garantire. Primo e fondamentale tra tutti è l’inviolabile diritto alla vita di ogni essere umano innocente” (Giovanni Paolo II, Lettera enciclica “Evangelium vitae”, n. 71).

La Costituzione italiana – come ben sapete – riconosce il diritto alla salute all’art. 32: “La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti… La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana”.

La pandemia ha accentuato alcune forme di fragilità (soprattutto psichica e mentale) e la collettività e le istituzioni diventano fondamentali affinché nessuno venga lasciato indietro e tutti possano usufruire dell’assistenza, ovunque vivano.

Il rapporto fra le leggi dello Stato e la legge morale è, inoltre, tutt’altro che scontato e qui va richiamato opportunamente il diritto/dovere all’obiezione di coscienza, là dove la legge dello Stato si riveli ingiusta ed una seria minaccia per la vita.

Il “«non uccidere» … può essere conosciuto alla luce della ragione (quindi da tutti)… È una sollecitudine non solo personale ma sociale, che tutti dobbiamo coltivare” (Giovanni Paolo II, Lettera enciclica “Evangelium vitae”, n. 77). Queste parole oggi – in tempo di pandemia – devono risuonare forti e chiare in un frangente in cui potrebbe essere più difficile garantire il rispetto della vita umana per tutti.

Nell’enciclica “Fratelli tutti” Papa Francesco rilegge la parola del Buon Samaritano guardando al nostro tempo e, in particolare per chi ha responsabilità pubbliche, riprende quanto aveva già detto in un discorso al Parlamento Europeo, di Strasburgo. Ecco le sue parole: «Prendersi cura della fragilità dice forza e tenerezza, dice lotta e fecondità in mezzo a un modello funzionalista e privatista che conduce in modo inesorabile alla “cultura dello scarto”. […] Significa farsi carico del presente nella sua situazione più marginale e angosciante» (Papa Francesco, Lettera enciclica “Fratelli tutti”, n. 188).

Tali considerazioni sono un forte richiamo etico, anche nei confronti dei piccoli gesti che riguardano la condizione umana in stato di fragilità e valgono per tutti, in particolare per chi – ogni giorno – è impegnato in ambito sanitario e nella tutela del bene della salute. Valgono, quindi, sia per le autorità e i dirigenti sanitari, sia per i medici, gli infermieri, gli operatori socio-sanitari, i pazienti e le famiglie.

Dalla Nuova Carta degli Operatori Sanitari colgo poi tre spunti per una riflessione comune: “Servire la vita significa per l’operatore sanitario rispettarla ed assisterla fino al compimento naturale. L’uomo non è padrone ed arbitro della vita, ma fedele custode… Anche l’operatore sanitario non può ritenersi arbitro né della vita né della morte” (Pontificio Consiglio per la Pastorale della Salute, Nuova Carta degli Operatori Sanitari, n. 144).

Non è “arbitro” ma “custode”, soprattutto nell’ultimo atto, quello del morire, quando – escludendo ogni forma di eutanasia ed accanimento terapeutico e ribadendo il criterio della proporzionalità delle cure – ad ogni operatore sanitario (medici in primis) viene ricordata la consapevolezza che non è “né il signore della vita, né il conquistatore della morte” e che, proprio in tali contesti e nella valutazione dei mezzi, è chiamato sempre ad interrogarsi e a fare le opportune scelte (cfr. Pontificio Consiglio per la Pastorale della Salute, Nuova Carta degli Operatori Sanitari, n. 150).

Ancora, nel momento della massima fragilità si tratta di creare – tra paziente e operatore, tra operatore e famiglia del paziente – una comunicazione autentica, sincera, rispettosa, mai “distaccata e indifferente. La verità non va sottaciuta, ma non va neppure semplicemente notificata: essa va comunicata nell’amore e nella carità. Si tratta di stabilire … quel rapporto di fiducia, di accoglienza e di dialogo, che sa trovare i momenti e le parole” (cfr. Pontificio Consiglio per la Pastorale della Salute, Nuova Carta degli Operatori Sanitari, n. 157).

Richiamo, infine, il giuramento di Ippocrate che i medici pronunciano all’atto di iniziare la professione. I nostri medici – che in questi mesi e anche in questi giorni abbiamo visto e vediamo in prima linea – onorano l’impegno assunto nel “prestare assistenza d’urgenza a qualsiasi infermo che ne abbisogni e di mettersi, in caso di pubblica calamità, a disposizione dell’Autorità competenti”.

È lo stesso giuramento di Ippocrate, nella sua versione “moderna”, che spinge ogni volta a “prestare la mia opera con diligenza, perizia e prudenza secondo scienza e coscienza ed osservando le norme deontologiche che regolano l’esercizio della medicina e quelle giuridiche che non risultino in contrasto con gli scopi della mia professione”.

In conclusione, la persona umana va sempre considerata come “fine” e mai come “mezzo”, la fragilità è espressione dell’uomo (il limite!), l’etica è necessaria per custodire e promuovere tanto il bene comune quanto quello della persona. Ricordiamo, però, che soltanto la misericordia e il perdono rendono una società a misura d’uomo e capace di vere relazioni umane e, quindi, di prendersi cura di chi è più fragile, anche se non lo si può guarire.