Intervento del Patriarca alla veglia diocesana per il mondo del lavoro nella vigilia della Pentecoste (Chiesa parrocchiale Gesù Lavoratore - Marghera, 18 maggio 2013)
18-05-2013
Veglia diocesana per il mondo del lavoro nella vigilia della Pentecoste
(Chiesa parrocchiale Gesù Lavoratore – Marghera, 18 maggio 2013)
Intervento del Patriarca mons. Francesco Moraglia
Siamo qui riuniti per pregare.
Il libro degli Atti degli Apostoli narra come la Chiesa nascente invocasse, in modo incessante, il dono dello Spirito Santo: ‘Entrati in città, salirono nella stanza al piano superiore, dove erano soliti riunirsi: vi erano Pietro e Giovanni, Giacomo e Andrea, Filippo e Tommaso, Bartolomeo e Matteo, Giacomo figlio di Alfeo, Simone lo Zelota e Giuda figlio di Giacomo. Tutti questi erano perseveranti e concordi nella preghiera, insieme ad alcune donne e a Maria, la madre di Gesù, e ai fratelli di lui‘(At 1,13-14).
Chiediamo anche noi – con forza – il dono dello Spirito Santo su di noi, sulla Chiesa, sul mondo intero, sul lavoro. 
La preghiera appartiene alla vita del cristiano come qualcosa d’essenziale, di reale, d’efficace; la preghiera è qualcosa che, comunque, arricchisce sempre. Pregare non è, quindi, qualcosa di sterile; non è il gesto di chi non sa più cosa fare e, allora, per questo, prega; non è neppure il gesto di chi, in modo consolatorio, cerca di auto-suggestionarsi.
La preghiera, al contrario, è la convinzione intima e lo stile di chi appartiene al mondo della fede. Così, per il cristiano, la preghiera – come Gesù insegna – è una forza viva e vera, reale e obiettiva.
Gesù stesso ha pregato, soprattutto nei momenti difficili,  particolarmente, in quelli della prova; così, all’inizio della vita pubblica per quaranta giorni prega, da solo, nel deserto (Mt 4,1-11 / Mc 1,12-13 / Lc 4,1-13); prega durante la passione e prega in particolare nel momento dell’abbandono anche di quelli che aveva scelto come discepoli e amici (Mt 26,36-46 / Mc 14,32-42 / Lc 22,39-46); prega, infine, anche nel momento estremo della morte (Mt 27,46 / Mc 15,34 / Lc 23,46).
Il cristiano, da Gesù, viene invitato a pregare sempre, in ogni momento, senza interruzioni e senza indugi.
Richiamo brevemente quanto ho scritto nella terza lettera pastorale indirizzata alla Diocesi per l’Anno della Fede e che ha per titolo ‘Invito alla dottrina sociale della Chiesa’. Come esplicitazione è posta una citazione del profeta Michea: ‘Uomo, ti è stato insegnato ciò che è buono (‘ ): praticare la giustizia, amare la bontà, camminare umilmente con il tuo Dio’ (Mic 6,8).
Nella lettera si richiama l’elezione a Sommo Pontefice di papa Francesco e si cita l’esperienza di una parrocchia di Buenos Aires, ” [la] parola d’ordine o slogan che segna la vita di Nuestra Señora di Caacupé, nel barrio di Zavaleta a Buenos Aires, una delle parrocchie abitualmente visitate dall’allora arcivescovo Jorge Mario Bergoglio nel corso del suo ministero episcopale. Lo slogan così recita: «Caacupé calla, reza y trabaja por su barrio». E significa: «Caacupé sta in silenzio, prega e lavora per il suo quartiere». Non si chiede quindi né la rivoluzione, né un mondo perfetto o un benessere solo materiale ma, semplicemente, una vita in cui silenzio, preghiera e lavoro ridisegnino il profilo di una città in cui si possa manifestare la gioia del vivere fraterno’ (Francesco Moraglia, Invito alla dottrina sociale della Chiesa, pag. 4).
Sono importanti questi riferimenti poiché una comunità parrocchiale si pone di fronte ai tanti problemi del suo quartiere (barrio) con il silenzio, con la preghiera e con il lavoro. Non solo con il silenzio, oppure con il silenzio e il lavoro, ma con il silenzio, con il lavoro e con la preghiera.
Per i credenti è essenziale cogliere l’uomo, la società e le relazioni sociali in cui l’uomo vive, non attraverso uno sguardo riduttivo – che non pone di fronte a sé la totalità – ma attraverso una prospettiva aperta sull’uomo a 360° e, quindi, su tutto l’uomo e su ogni uomo.
L’uomo – come ricorda la prima lettera ai Tessalonicesi – è costituito da spirito, anima e corpo (1 Ts 5,23); quindi, non da una di queste realtà ma dal loro insieme. Si tratta di realtà che chiedono d’essere riconosciute e non confuse fra loro: l’uomo è insieme spirito, anima e corpo.
Così l’uomo è la sua anima ma l’uomo è, anche, il suo corpo, la sua intelligenza, i suoi ricordi, la sua relazionalità con l’altro, con gli altri e con l’Altro scritto con la ‘A’ maiuscola. Ecco perché l’allora arcivescovo Bergoglio parlava di silenzio, lavoro e preghiera.
Indico ancora un altro passo della terza lettera scritta per l’Anno della Fede in cui è riportato il seguente pensiero di papa Francesco: ‘Il vescovo deve incessantemente predicare la dottrina sociale che deriva dal Vangelo e che la Chiesa ha reso manifesta dal periodo dei primi padri. Dottrina sociale in grado di suscitare speranza perché i nostri fratelli nella filiazione divina e noi stessi dobbiamo tenere conto del fatto che se non c’è speranza per i poveri non ve ne sarà neppure per i ricchi’ (Gianni Valente, Francesco un papa dalla fine del mondo, Emi 2013)’ (Ibidem, pag. 5).
Queste parole ci permettono di comprendere come la Chiesa sia chiamata ad andare incontro al mondo con un profondo sguardo di fede e con una vera condiscendenza-simpatia dinanzi alle tante ferite degli uomini, nostri contemporanei.
Preghiamo quindi per coloro che – come, in maniera drammatica, ci ricorda la cappella loro dedicata in questa chiesa – hanno perso la vita sul posto di lavoro e anche per i loro familiari che, dopo queste morti, hanno visto sconvolte le loro esistenze. La morte sul posto di lavoro non uccide, infatti, solo quelli che perdono la vita ma anche le loro famiglie.
Preghiamo per tutte quelle persone e quelle famiglie che, a causa delle conseguenze di incidenti sul lavoro, non sono più riuscite ad esprimere le loro potenzialità, i loro progetti e i loro desideri. 
Preghiamo affinché nei luoghi di lavoro non si muoia più per la mancanza di sicurezza e vigilanza, per il calcolo di qualcuno sulla pelle degli altri.
Preghiamo affinché i modelli antropologici frutto di una visione riduttiva dell’uomo, siano sostituiti da altri che pongono al centro la persona umana con le sue potenzialità, le sue risorse e le sue fragilità.
Preghiamo affinché la politica sia capace di promuovere – attraverso scelte coraggiose, mirate e dovute – interventi a favore dello sviluppo e dell’occupazione.
Preghiamo affinché la scuola sia in grado di proporre un cammino in cui conoscenze e competenze aiutino i giovani a trovare un più facile inserimento del mondo del lavoro.
In questi anni faticosi di perdurante crisi economica abbiamo toccato con mano come coloro che, un poco frettolosamente, erano considerati soggetti forti nel mercato del lavoro, in realtà sono stati profondamente toccati dalla crisi e messi a nudo nelle loro fragilità. Alludo al fenomeno dei suicidi che coinvolgono non solo chi appartiene al mondo del lavoro dipendente ma anche dell’imprenditoria.
 Le stesse iniziative che traducono in concreto il principio di sussidiarietà, nate per venire incontro a reali esigenze del nostro territorio e, non di rado, espressioni del mondo cattolico – pensiamo alla scuola paritaria -, oggi di fronte alla situazione di perdurante crisi versano in situazione di grave difficoltà; per cui non si è più in grado – e non per mala volontà o perché si siano fatte altre scelte pastorali – di perseguire quei progetti e a dare quei servizi che, in un passato recente, venivano offerti.
Di fronte all’ideologia del riduzionismo, nemica di una antropologia rispettosa dell’uomo e di tutto l’uomo – e sempre in agguato anche in ambito finanziario, economico e politico -, ecco la ‘Caritas in veritate’ di Benedetto XVI al n. 71:
‘[La] possibile deviazione della mentalità tecnica dal suo originario alveo umanistico è oggi evidente nei fenomeni della tecnicizzazione sia dello sviluppo che della pace. Spesso lo sviluppo dei popoli è considerato un problema di ingegneria finanziaria, di apertura dei mercati, di abbattimento di dazi, di investimenti produttivi, di riforme istituzionali, in definitiva un problema solo tecnico. Tutti questi ambiti sono quanto mai importanti, ma ci si deve chiedere perché le scelte di tipo tecnico finora abbiano funzionato solo relativamente. La ragione va ricercata più in profondità. Lo sviluppo non sarà mai garantito compiutamente da forze in qualche misura automatiche e impersonali, siano esse quelle del mercato o quelle della politica internazionale. Lo sviluppo è impossibile senza uomini retti, senza operatori economici e uomini politici che vivano fortemente nelle loro coscienze l’appello del bene comune. Sono necessarie sia la preparazione professionale sia la coerenza morale. Quando prevale l’assolutizzazione della tecnica si realizza una confusione fra fini e mezzi, l’imprenditore considererà come unico criterio d’azione il massimo profitto della produzione; il politico, il consolidamento del potere; lo scienziato, il risultato delle sue scoperte. Accade così che, spesso, sotto la rete dei rapporti economici, finanziari o politici, permangono incomprensioni, disagi e ingiustizie; i flussi delle conoscenze tecniche si moltiplicano, ma a beneficio dei loro proprietari, mentre la situazione reale delle popolazioni che vivono sotto e quasi sempre all’oscuro di questi flussi rimane immutata, senza reali possibilità di emancipazione’ (Caritas in veritate, n. 71).