Intervento del Patriarca al convegno di Confindustria Venezia sul tema “Responsabilità Sociale d’Impresa” (Marghera, 6 febbraio 2020)
06-02-2020

Confindustria Venezia – Area Metropolitana Venezia e Rovigo

Convegno sul tema “Responsabilità Sociale d’Impresa”

(Marghera, 6 febbraio 2020)

Intervento del Patriarca Francesco Moraglia

 

  

Presidente, Direttore Generale, Associate e Associati,

nel ringraziare per l’invito, provo a condividere con Voi alcuni pensieri sulla responsabilità sociale d’impresa.

Ne tratterò, ovviamente, a partire da una antropologia orientata in senso cristiana, ma laica e non confessionale. Il termine “laicità” non è sinonimo di “laicismo” e qui, di seguito, indico subito alcune linee fondanti tale laicità.

Nell’esortazione apostolica Evangelii gaudium Papa Francesco afferma: “…la vocazione di un imprenditore è un nobile lavoro, sempre che si lasci interrogare da un significato più ampio della vita; questo gli permette di servire veramente il bene comune, con il suo sforzo di moltiplicare e rendere più accessibili per tutti i beni di questo mondo” (Papa Francesco, Esortazione apostolica Evangelii gaudium, n. 203).

Ancora Papa Francesco, nell’enciclica Laudato si’ sulla cura della casa comune tratta della necessità di educare la nostra e le future generazioni (compresi gli imprenditori e i dirigenti) ad una vera alleanza tra umanità e ambiente: “L’educazione ambientale è andata allargando i suoi obiettivi. Se all’inizio era molto centrata sull’informazione scientifica e sulla presa di coscienza e prevenzione dei rischi ambientali, ora tende a includere una critica dei “miti” della modernità basati sulla ragione strumentale (individualismo, progresso indefinito, concorrenza, consumismo, mercato senza regole) e anche a recuperare i diversi livelli dell’equilibrio ecologico: quello interiore con sé stessi, quello solidale con gli altri, quello naturale con tutti gli esseri viventi, quello spirituale con Dio” (Papa Francesco, Lettera enciclica Laudato si’, n. 210)

In premessa, ricordo che per “impresa” s’intende naturalmente l’attività che ha per scopo la produzione di beni e/o di servizi. Tale attività si riferisce all’uomo e alla sua responsabilità ed è il risultato dell’azione congiunta del lavoro, delle macchine e del capitale.

Il legislatore civile, nel definire l’impresa, pone al centro della stessa la figura umana dell’imprenditore (cfr. art. 2082 del Codice Civile) che esercita professionalmente un’attività economica da egli organizzata e finalizzata alla produzione e allo scambio di beni e servizi servendosi di un complesso di beni (cfr. art. 2555 CC).

L’impresa – come ogni attività umana – dipende dalle conoscenze e dai valori che caratterizzano un’epoca, dalla cultura degli imprenditori e delle associazioni che li rappresentano, le quali, a loro volta, hanno una storia, una idealità.

Vorrei allora richiamare qui quanto detto dal Santo Padre nell’intervista al quotidiano Il Sole 24 Ore  il 7 settembre 2018: “Il modo di pensare l’azienda incide fortemente sulle scelte organizzative, produttive e distributive. Si può dire che agire bene rispettando la dignità delle persone e perseguendo il bene comune fa bene all’azienda. C’è sempre una correlazione tra azione dell’uomo e impresa, azione dell’uomo e futuro di un’impresa… Una sana economia non è mai slegata dal significato di ciò che si produce e l’agire economico è sempre anche un fatto etico. Tenere unite azioni e responsabilità, giustizia e profitto, produzione di ricchezza e la sua ridistribuzione, operatività e rispetto dell’ambiente diventano elementi che nel tempo garantiscono la vita dell’azienda. Da questo punto di vista il significato dell’azienda si allarga e fa comprendere che il solo perseguimento del profitto non garantisce più la vita dell’azienda…” (Papa Francesco, Intervista al quotidiano Il Sole 24 Ore, 7 settembre 2018).

L’industria, oggi, vive una fase denominata 4.0; si tratta della quarta rivoluzione industriale della quale non abbiamo ancora una visione esaustiva, ma possiamo descriverla come il processo che condurrà ad una produzione automatizzata e interconnessa. Un processo nel quale la macchina – intesa in senso lato – non è più un elemento ausiliario al quale affidare dei lavori di tipo materiale, ma diventa un qualcosa che gestisce dati, li elabora e indirizza le risultanze che ne ricava non solo sul piano operativo ma anche organizzativo.

La Responsabilità Sociale d’Impresa – Corporate Social Responsability – deve perciò misurarsi con le caratteristiche dell’epoca storica che viviamo, concretamente, con le sue conoscenze e valori.

La Corporate Social Responsability (CSR) – cito dal Dizionario Treccani – mette al centro della funzione-obiettivo dell’impresa la composizione dei diversi interessi dei molteplici stakeholder. Secondo una simile prospettiva, le dimensioni ambientali, umanitarie e sociali si affrancano da uno storico ruolo di sudditanza rispetto all’obiettivo del profitto e, in quanto obiettivi in sé, contribuiscono a definire modalità e vincoli per il conseguimento dei risultati più strettamente economici. L’efficienza nel rispetto delle norme e l’osservanza di doveri fiduciari nei confronti degli stakeholder sono ormai chiavi gestionali sempre più adottate” (Dizionario Treccani, Voce Corporate Social Responsability).

Il termine Industria 4.0 indica così la tendenza all’automazione industriale che integra nuove tecnologie produttive per migliorare le condizioni di lavoro e creare nuovi modelli di business, aumentando il prodotto e la qualità produttiva degli impianti. Circa il miglioramento delle condizioni di lavoro non si dà ancora un sostanziale accordo tra gli studiosi; per alcuni, infatti, il miglioramento delle condizioni di lavoro sarebbe solo una promessa – peraltro non inedita – che ogni trasformazione tecnico-organizzativa porta con sé.

L’ Industria 4.0 – denominata pure dei sistemi cibernetici – è stata preceduta da:

  • l’Industria 0, epoca in cui la produzione aveva alla base la meccanizzazione con utilizzo della forza dell’acqua e del vapore;
  • l’Industria0, quando con la catena di montaggio l’industria si è caratterizzata per la produzione di massa.
  • l’Industria 0 fondata sul computer e l’automatizzazione.

Infine, come detto, l’Industria 4.0, ossia quella dei sistemi cibernetici costituita da strumenti concettuali sviluppati da tecnologie sempre più avanzate. Questa fase comporta la disponibilità ad investimenti su infrastrutture, attrezzature, impianti, installazioni, servizi pubblici e, ovviamente, scuole, sistemi energetici, enti di ricerca e aziende per ammodernare il sistema produttivo non solo nelle specifiche realtà aziendali ma anche ponendolo in un contesto generale più efficiente e rendendolo, quindi, più competitivo a livello globale.

Alcuni guardano, però, già alla quinta rivoluzione, ossia all’Industria 5.0 che si focalizzerà sulla cooperazione tra uomo e macchina con la finalità dichiarata di far lavorare in armonia l’intelligenza umana con quelle impropriamente definite come “intelligenze artificiali”.

La collaborazione tra uomini e robot punta allo sviluppo di un valore aggiunto in termini di produzione; essa si pone, come obiettivo, la creazione di un prodotto personalizzato che rispetti le esigenze del cliente.

Lo sviluppo dell’Information and Communication Technology (ICT) e dell’Artificial Intelligence (AI) ha condotto alla messa a punto dei Cyber-Physical System (CPS), chiave di volta di ogni futura crescita.

Giovanni Manco, esperto in Digital Business Transformation – al cui pensiero rimando –  delinea l’attuale momento considerando il futuro come già, almeno parzialmente in atto, e parla di uno sviluppo dall’Industria 4.0 a quella 5.0.

Ecco le sue parole: I vantaggi per la società e le imprese sono notevoli. Attualmente il modello Industria 4.0 è focalizzato molto sulla realizzazione di un ecosistema aziendale basato su un’architettura che integra orizzontalmente e verticalmente i vari Cyber-physical-System (CPS) e i vari sistemi di gestione. L’impiego dei Cobot  [“Collaborative robot “, ossia un robot concepito per interagire fisicamente con l’uomo in uno spazio di lavoro] è limitato, e la ridefinizione dell’intervento umano nei processi produttivi (la nuova connessione della forza lavoro) rappresenta ancora un possibile problema. Nello scenario Industria 5.0 l’Empowering people, ovvero l’importanza dell’uomo nei processi automatizzati, è strategica per la qualità, l’efficienza e soprattutto per una piena attuazione dell’obiettivo di personalizzare i beni/servizi prodotti offerti alla clientela” (tratto da Innovation Post: Giovanni Manco, Verso Industria 5.0. I vantaggi del nuovo paradigma).

In tale contesto, la responsabilità d’impresa viene accresciuta dalla maggiore complessità e dal maggior potere che assumono i nuovi strumenti; essa ricade ancora di più sull’uomo che rimane, comunque, la prima “risorsa” dell’attività imprenditoriale.

Dopo quanto detto, è importate considerare l’attuale contesto in cui si svolge l’attività umana denominata “impresa”.

“La Corporate Social Responsability – cito sempre dal Dizionario Treccani – trova uno spirito applicativo più profondo nell’adozione, da parte delle imprese, di forme di autoregolamentazione spontanea espresse nei codici etici e nelle carte dei valori aziendali, anche secondo standard riconosciuti internazionalmente ( certificazione ambientale). In tali documenti, che integrano i rapporti per la comunicazione sociale e ambientale, si definisce lo stile di condotta etico-morale dell’impresa, anche rispetto a situazioni non regolamentate dal legislatore e che possono riguardare i rapporti tra proprietà, management e dipendenti, come anche i rapporti con i fornitori e con gli altri stakeholder esterni” (Dizionario Treccani, voce Corporate Social Responsability).

Nell’impresa del futuro il confronto tra beni prodotti e/o servizi erogati e profitto, non dovrà più limitarsi a confronti numerici ma dovrà tener conto di ciò che esiste ed evolve dietro quei numeri perché, se da tale analisi dovesse derivare una responsabilità sociale che fa capo a quella impresa, allora, il futuro di tale azienda potrebbe risultarne compromesso in misura maggiore rispetto a decenni or sono.

La responsabilità sociale d’impresa rientra, quindi, all’interno della connotazione morale dell’attività imprenditoriale e fa parte della più generale attività economica (cfr. Compendio della Dottrina Sociale della Chiesa, [d’ora in poi C.d.S.C.] nn. 330-335). Fra poco ci soffermeremo anche sul rapporto fra iniziativa privata ed impresa (C.d.S.C., nn. 336-350).

Circa la questione più generale, ossia il rapporto fra morale ed economia (C.d.S.C., n. 331), va sottolineato innanzitutto che tra morale ed economia vi è una “necessaria distinzione” ma non certo una separazione; anzi, sussiste “una reciprocità importante”. E si rileva l’utilità di aprire il campo economico alle istanze morali proprio perché l’uomo rimane sempre “l’autore, il centro e il fine di tutta la vita economico-sociale” e il fine dell’economia non risiede in se stessa ma possiede una naturale “destinazione umana e sociale”. Non riconoscere questa reciprocità tra morale ed economia sarebbe “irrazionale”.

Il Compendio arriva a sottolineare (n. 332) che questo legame di reciprocità diventa, in realtà, una risorsa e un “fattore di efficienza” poiché “la dimensione morale dell’economia fa cogliere come finalità inscindibili, anziché separate e alternative, l’efficienza economica e la promozione di uno sviluppo solidale dell’umanità. E già questa affermazione collega strettamente la questione dell’efficienza (nella produzione, nei servizi, nell’impiego delle risorse ecc.) a quella di una distribuzione giusta e solidale della crescita economica in modo che non escluda nessuno (popolo e persone), relegando così in condizioni di povertà e sfruttamento.

È ben chiaro – e il Compendio lo evidenzia (n. 334) – che l’economia ha per oggetto “la formazione della ricchezza e il suo incremento progressivo, in termini non soltanto quantitativi, ma qualitativi: tutto ciò è moralmente corretto se finalizzato allo sviluppo globale e solidale dell’uomo e della società in cui egli vive ed opera”. E quando si parla di sviluppo questo non è mai “un mero processo di accumulazione di beni e servizi” che, oltretutto, non garantisce ed assicura a nessuno “la realizzazione dell’autentica felicità umana”. Mi sono sentito dire anche da alcuni imprenditori una cosa che, per me, era ovvia: i soldi non fanno la felicità…

Circa il rapporto più articolato fra iniziativa privata e impresa (C.d.S.C., nn. 336-350), si devono porre le premesse per cogliere ed esprimere la responsabilità d’impresa, particolarmente dell’imprenditore cristiano.

Va riaffermato, intanto, che “la dottrina sociale della Chiesa considera la libertà della persona in campo economico un valore fondamentale e un diritto inalienabile da promuovere e tutelare” (C.d.S.C., n. 336).

Numerosi e importanti passaggi del magistero anche recente (pensiamo al contributo offerto in materia da san Giovanni Paolo II) sottolineano l’assoluta importanza di non ridurre mai o addirittura distruggere, anche in campo economico ed imprenditoriale, “la soggettività creativa del cittadino” (cfr. Giovanni Paolo II, Lettera enciclica Sollecitudo rei socialis, n.15) e che l’intervento dello Stato deve semmai favorire tale libertà d’iniziativa svolgendo al meglio le sue funzioni istituzionali e limitandosi a porre in essere solo quei meccanismi di controllo, quelle regole o quei vincoli di azioni che il perseguimento del bene comune generale richiede come necessari “senza irreggimentare l’intera vita economica e mortificare la libera iniziativa dei singoli” (cfr. Giovanni Paolo II, Lettera enciclica Centesimus annus, n. 48).

Ora desidero richiamare quanto il Compendio della Dottrina sociale della Chiesa dice dell’importante ruolo dell’imprenditore e del dirigente di azienda che, quando sono in grado d’interpretare tale compito in spirito di fedeltà a quanto richiedono i riferimenti antropologici orientati in senso cristiani, diventano figure imprescindibili non solo per la loro azienda ma, anche, per l’intero territorio ove operano come imprenditori e dirigenti d’azienda.

È chiaro che tutto deve avvenire all’interno di una piena e vera “laicità” e indico, di seguito, solo alcuni spunti “di partenza”.

Interessante è notare anche come il n. 343 del Compendio ci rimandi all’autentico – e spesso dimenticato – significato della competizione imprenditoriale che rappresenta “un cum-petere [petere dal latino], ossia un cercare insieme le soluzioni più adeguate, per rispondere nel modo più idoneo ai bisogni che man mano emergono”.

In una società che è sempre più comunità globale e – lo auspichiamo – solidale, anche nell’ambito del lavoro e dell’economia, la responsabilità dell’imprenditore assume il rilievo di una virtù che è, insieme, individuale e sociale; una virtù “indispensabile” e “necessaria allo sviluppo di una comunità” (C.d.S.C., n. 343). Se, quindi, fate bene gli imprenditori – attenzione! – voi siete i buoni samaritani di una società.

Sempre san Giovanni Paolo II ricordava ed esplicitava così tale aspetto: “In questo processo sono coinvolte importanti virtù, come la diligenza, la laboriosità, la prudenza nell’assumere i ragionevoli rischi, l’affidabilità e la fedeltà nei rapporti interpersonali, la fortezza nell’esecuzione di decisioni difficili e dolorose, ma necessarie per il lavoro comune dell’azienda e per far fronte agli eventuali rovesci di fortuna” (Giovanni Paolo II, Lettera enciclica Centesimus annus, n. 32). A tal proposito, mi preme anche dirvi una cosa: so bene che un imprenditore non ha orari ma… cercate di averli! Esiste la famiglia ed esistono i figli che non hanno i tempi dell’azienda…

Per la crescente complessità (e responsabilità) dell’attività economica ed imprenditoriale, a chi agisce in questo campo è richiesto un supplemento di attenzione, di aggiornamento e di discernimento a partire da “una costante riflessione sulle motivazioni morali che devono guidare le scelte personali di chi è investito di tali compiti” (C.d.S.C., n. 344) con particolare riguardo – accanto agli obiettivi strettamente economici dell’impresa, dell’efficienza economica e della cura del capitale – a ciò che rappresenta la primaria ricchezza, il patrimonio decisivo, il fattore di produzione per eccellenza di un’impresa: le persone che la compongono, i lavoratori – nelle loro differenti mansioni ma con la stessa e inestimabile dignità umana – da preservare e tutelare sempre.

Anche “nelle grandi decisioni strategiche e finanziarie, di acquisto o vendita, di ridimensionamento o chiusura di impianti, nella politica delle fusioni, non ci si può limitare esclusivamente a criteri di natura finanziaria o commerciale” (C.d.S.C., n. 344).

Non posso, infine, trascurare di osservare che in tale contesto rientra anche il doveroso impegno di dirigenti ed imprenditori (cfr. C.d.S.C., n. 345) ad assicurare scelte, decisioni e misure di vita aziendale che favoriscano la vita familiare delle persone e, alla luce sempre di una visione integrale dell’uomo e dello sviluppo, il perseguimento di una politica aziendale di “qualità” della vita: qualità dei prodotti, qualità dei servizi, qualità delle relazioni, qualità dell’ambiente e del contesto sociale ecc.

In conclusione, circa la responsabilità sociale d’impresa vale la pena sottolineare anche la necessità di un’opera educativa-culturale che tocchi tutti i soggetti coinvolti: non solo la proprietà e il management, i dipendenti e i collaboratori, ma anche tutti gli stakeholder interessati e riconducibili – di volta in volta – a figure interne all’azienda o che interagiscono con essa (ad es. dipendenti, fornitori ecc.) o ad altri soggetti esterni (ad es. clienti, cittadini residenti nelle zone dove l’impresa ha sede e svolge l’attività ecc.).

Fondamentale è tenere sempre presente – lo annotava già san Giovanni Paolo II nella Centesimus annus – che la domanda di un’esistenza qualitativamente più soddisfacente e più ricca è in sé cosa legittima; ma non si possono non sottolineare le nuove responsabilità ed i pericoli connessi con questa fase storica… Individuando nuovi bisogni e nuove modalità per il loro soddisfacimento, è necessario lasciarsi guidare da un’immagine integrale dell’uomo, che rispetti tutte le dimensioni del suo essere e subordini quelle materiali e istintive a quelle interiori e spirituali… È, perciò, necessaria ed urgente una grande opera educativa e culturale, la quale comprenda l’educazione dei consumatori ad un uso responsabile del loro potere di scelta, la formazione di un alto senso di responsabilità nei produttori e, soprattutto, nei professionisti delle comunicazioni di massa, oltre che il necessario intervento delle pubbliche Autorità” (Giovanni Paolo II, Lettera enciclica Centesimus annus, n. 32).

Da quanto esposto ne deriva, in modo chiaro che, oggi, l’impresa e l’imprenditore a capo dell’azienda non possono operare come fossero circoscritti nei soli limiti del bilancio aziendale ma devono tener conto di ciò che l’attività dell’impresa genera a carico della società e degli individui che la compongono, operando secondo principi che abbiano un preciso e fermo riferimento a valori antropologici per una crescita giusta ed armonica del bene comune che – non dobbiamo dimenticarlo! – non è mai la semplice sommatoria dei beni particolari.  

In tale contesto va segnalato anche un ultimo aspetto che sottopongo alla vostra attenzione. Lo traggo da un’analisi pubblicata nei giorni scorsi dal Sole 24 Ore e che osservava come “un dibattito globale sulla necessità per le imprese di ripensare la propria responsabilità e incorporare esplicitamente obiettivi di impatto sociale nel proprio core business” in questi ultimi tempi sia sempre più rilevante. Lo stesso Manifesto 2020 di Davos – “Davos Manifesto 2020: the universal purpose of a company in the fourth industrial revolution” -, del resto, spinge i grandi capitali internazionali verso “un’agenda di transizione” verso il cosiddetto stakeholder capitalism, connotato appunto dalla necessità di rispondere ad una ampia comunità di portatori di interessi e non solo agli azionisti.

Sulla necessità, poi, che si rivedano e si superino anche certe separazioni o distinzioni troppo rigide nello stesso mondo economico ed imprenditoriale – nell’ottica di una responsabilità sociale d’impresa sempre più avvertita e praticata – c’è anche da tener presente un’interessante riflessione di Papa Francesco espressa in quell’intervista rilasciata poco più di un anno fa al Sole 24 Ore: “Un’etica amica della persona tende al superamento della distinzione rigida tra realtà votate al guadagno e quelle improntate non all’esclusivo meccanismo dei profitti, lasciando un ampio spazio ad attività che costituiscono e ampliano il cosiddetto terzo settore. Esse, senza nulla togliere all’importanza e all’utilità economica e sociale delle forme storiche e consolidate di impresa, fanno evolvere il sistema verso una più chiara e compiuta assunzione delle responsabilità da parte dei soggetti economici. Infatti, è la stessa diversità delle forme istituzionali di impresa a generare un mercato più civile e al tempo stesso più competitivo” (Papa Francesco, Intervista al Sole 24 Ore, 7 settembre 2018).

Ricordo, infine, come l’enciclica Laudato si’ richieda espressamente un cambiamento negli stili di vita così da poter incidere su chi detiene il potere politico, economico e sociale, rimarcando la responsabilità sociale dei consumatori (cfr. Papa Francesco, Lettera enciclica Laudato si’, n. 207). E tutti – lo sappiamo bene – siamo, in diverso modo e a vario titolo, consumatori.