Intervento del Patriarca al Convegno della Caritas veneziana "Perché accoglierli?" (Centro pastorale card. Urbani / Zelarino, 27 maggio 2017)
27-05-2017

“Perché accoglierli?” – Convegno della Caritas diocesana

(Centro pastorale card. Urbani / Zelarino, 27 maggio 2017)

Intervento del Patriarca di Venezia Francesco Moraglia

 

  

 

                Sono contento di intervenire all’incontro non solo perchè fa eco alla pubblicazione di Marco Giordano “Perché accoglierli?” ma perché ci pone dinanzi all’urgenza di riscoprire motivazioni e modi concreti per una dignitosa risposta umana e cristiana al fenomeno dei rifugiati e dei migranti, anche dinanzi a quella che – per le informazioni fino ad ora giunte – si delinea come risposta inadeguata data dal G7 di Taormina.

Pare, infatti, che la grande politica abbia perso un’altra occasione per affrontare alla radice una realtà complessa e delicata che, irrisolta, finirà per travolgerci.

A tale proposito non possiamo dimenticare le parole con cui Papa Francesco aveva lanciato l’appello: “Di fronte alla tragedia di decine di migliaia di profughi che fuggono dalla morte per la guerra e per la fame, e sono in cammino verso una speranza di vita, il Vangelo ci chiama, ci chiede di essere “prossimi”, dei più piccoli e abbandonati. A dare loro una speranza concreta. Non soltanto dire: “Coraggio, pazienza!…”. La speranza cristiana è combattiva, con la tenacia di chi va verso una meta sicura. Pertanto, in prossimità del Giubileo della Misericordia, rivolgo un appello alle parrocchie, alle comunità religiose, ai monasteri e ai santuari di tutta Europa ad esprimere la concretezza del Vangelo e accogliere una famiglia di profughi” (Papa Francesco, Angelus di domenica 6 settembre 2015). 

Rimanendo alle nostre possibilità, questo convegno promosso dalla Caritas diocesana testimonia che gesti concreti possono essere sempre compiuti. Alcune comunità e famiglie, infatti, si sono aperte a questo specifico tipo di accoglienza e ciò stia generando – nella comunità familiare, ecclesiale e non solo – frutti di maggiore attenzione, di reale apertura agli altri, carità e coesione sociale.

Sappiamo bene come la questione dei rifugiati e dei migranti sia epocale e, quindi, infinitamente più “grande” di noi e anche di quelle realtà che sono divenute in questi anni comunità d’accoglienza. Sappiamo bene che, sino a quando tale problematica non diventerà preoccupazione e pensiero costante della politica europea e mondiale, la buona volontà e la generosità della gente, l’impegno ecclesiale e del volontariato – insieme alle “mezze risposte di una politica purtroppo claudicante” – si dimostreranno insufficienti.

A tale proposito – come già dicevo e ora desidero ripetere con maggiore forza – l’Europa, l’Occidente evoluto e, in genere, il Nord del pianeta devono fare un serio discernimento critico sulle politiche più e meno recenti che sono state fatte nei confronti di molte nazioni – pensiamo, in particolare, al continente africano – che, oggi, non presentano più condizioni di vita possibili a motivo di guerre, condizioni climatiche invivibili e situazioni politiche ed economiche non sostenibili. E pensiamo, in certi casi, a un debito non più esigibile a livello internazionale.

Così l’accoglienza diffusa ed equilibrata a piccoli gruppi – non solo di uomini ma di uomini, donne e bambini sul territorio, in vista di un progetto reale di integrazione – rappresenta certamente una soluzione auspicabile e praticabile ma all’interno di una condivisa assunzione di responsabilità fra territorio, istituzioni e soprattutto da parte della politica.

Spesso ho parlato, per questo, dell’importanza di un’accoglienza saggia e non semplicemente buonista, di un’accoglienza che diventi vera integrazione attraverso un reale progetto con quote certe e ragionevoli di immigrati accolti nei differenti Stati europei ed anche extra europei. Senza questa reale volontà politica anche con l’impegno massimo del volontariato, la disponibilità e la cultura dell’accoglienza risulteranno insufficienti.

Rimane, però, fondamentale il fatto che ognuno si lasci coinvolgere, toccare e svolga la sua parte. Senza dimenticare che aiutare e ricevere degnamente queste persone significa offrir loro un po’ di futuro.

Chi crede nel nome e nella persona di Gesù Cristo, il Figlio di Dio fatto uomo, non può dimenticare poi che – cito qui il Papa nel messaggio per la Giornata mondiale 2017 per il migrante e il rifugiato – “il fenomeno migratorio non è avulso dalla storia della salvezza, anzi, ne fa parte. Ad esso è connesso un comandamento di Dio: «Non molesterai il forestiero né lo opprimerai, perché voi siete stati forestieri in terra d’Egitto»; «Amate dunque il forestiero, perché anche voi foste forestieri nella terra d’Egitto». Tale fenomeno costituisce un segno dei tempi, un segno che parla dell’opera provvidenziale di Dio nella storia e nella comunità umana in vista della comunione universale.” (Papa Francesco, Messaggio per la Giornata mondiale del migrante e del rifugiato 2017).

Il Papa, certo, non si nasconde le difficoltà del momento presente e non sminuisce lo sforzo epocale che tale fenomeno richiede a tutti i soggetti interessati, ma dice anche – con forza e in modo continuo – che nessun uomo può chiudere gli occhi di fronte ad esso e che un cristiano non può non lasciarsi – personalmente e comunitariamente – interpellare dal Vangelo.

Il pluralismo – che sempre più plasma le nostre società avanzate – di per sé non va inteso come elemento che mina alla base la vita delle persone o delle istituzioni sociali, politiche e religiose. Certo, lo può diventare se è alimentato dalla deriva che riduce tutto a puro soggettivismo e che tutto appiattisce in un radicale relativismo.

Ripeto che “accoglienza”, “passione per la verità”, “convinzioni profonde” e, quindi, un saggio amore per la propria identità e storia non sono realtà antitetiche fra loro; al contrario, sono chiamate a integrarsi e fecondarsi reciprocamente.

E certo – col rapido e profondo mutamento culturale e sociale, ormai in atto da alcuni decenni – non possiamo trascurare il fatto che aumenta l’insicurezza e il senso della precarietà, caratteristiche ormai delle odierne relazioni delle nostre società.

 Ascoltiamo ancora il Papa che continua e dice: “Pur senza misconoscere le problematiche e, spesso, i drammi e le tragedie delle migrazioni, come pure le difficoltà connesse all’accoglienza dignitosa di queste persone, la Chiesa incoraggia a riconoscere il disegno di Dio anche in questo fenomeno, con la certezza che nessuno è straniero nella comunità cristiana, che abbraccia «ogni nazione, razza, popolo e lingua». Ognuno è prezioso, le persone sono più importanti delle cose e il valore di ogni istituzione si misura sul modo in cui tratta la vita e la dignità dell’essere umano, soprattutto in condizioni di vulnerabilità, come nel caso dei minori migranti. Inoltre occorre puntare sulla protezione, sull’integrazione e su soluzioni durature” (Papa Francesco, Messaggio per la Giornata mondiale del migrante e del rifugiato 2017).

Le leggi hanno un confronto previo. L’uomo, sì, l’uomo viene prima della società, prima dello Stato. E le leggi sono per gli uomini. E per essere veramente leggi devono saper tutelare e promuovere i diritti umani, senza confondere o trasformare i desideri in diritti. E le leggi devono rispondere, in tal modo, ad un’etica rispettosa dell’uomo e della sua dignità; in caso contrario, la legge – piaccia  o meno – diventa arbitrio anche se è votata dalla maggioranza. La democrazia non è fatta solo da regole e forme, ma di valori.

E come Chiesa non dobbiamo stancarci di ripetere che le persone vanno accolte, in base a un progetto di vera e obiettiva integrazione. Non potremo fare diversamente.

Le persone che giungono qui disperate e assetate di un futuro possibile, dopo l’attraversamento di deserti e insidiosi bracci di mare, sono chiamate serenamente a riconoscere la storia, l’identità, le leggi del popolo che li accoglie e, quindi, devono andare oltre la scelta della legalità ed impegnarsi per la crescita della nuova comunità e dello Stato di cui saranno parti vive.

Non si tratta d’esser deboli o forti nell’accoglienza, ma d’esser sinceramente fedeli – nelle modalità anche nuove che i tempi di oggi richiedono – alle richieste del momento presente e del Vangelo di Gesù che quando è realmente assunto e vissuto genera, sempre, cultura.

 Dobbiamo, in tal modo, impegnarci per una cultura che, come la fede, sia in modo vero e autentico “amica dell’uomo” e sappia proporre un modello dignitoso di convivenza sociale traducendo i principi del pensiero sociale cristiano: la responsabilità personale, la destinazione universale dei beni, la solidarietà e la sussidiarietà.

Ogni comunità, anche le nostre più piccole sono realmente tali là dove sanno accogliere e valorizzare le singole persone. E la persona è compiutamente tale solo se si pone veramente al servizio del bene comune.