Venezia e Mestre, il vicario episcopale don Fabrizio Favaro spiega come cambia e si amplia l’offerta di servizi caritativi del Patriarcato (da www.genteveneta.it)

Si amplia e diventa più ricca l’offerta di carità della Chiesa di Venezia. È il significato di fondo delle azioni che si stanno compiendo in questi giorni, o che si compiranno a breve, e che riguardano realtà primarie della carità veneziana. Come Betania, la mensa aperta quasi quarant’anni fa a Cannaregio, che ai primi di novembre si trasferirà alla Tana, a Castello. O come Ca’ Letizia, la mensa gestita dalla San Vincenzo mestrina, per la quale è in vista il trasferimento. «Si tratta – spiega il vicario episcopale per gli affari economici don Fabrizio Favaro – di scelte che aiutano a rispondere meglio alle esigenze di oggi e a offrire un servizio di carità adeguato alla domanda attuale e alle nuove povertà, secondo lo stile di vita di oggi».

Perché questi interventi, sia a Venezia che a Mestre?

Il punto di partenza è il fatto che la Chiesa e la città di Venezia e Mestre hanno delle strutture e delle esperienze significative e consolidate di carità, che in questi decenni hanno sostenuto e indirizzato il sistema del welfare della nostra società. Queste realtà sono nate per rispondere ad un problema oggettivo: la presenza di situazioni di marginalità e povertà nelle nostre città. Come Chiesa di Venezia, con tutte le sue realtà, in particolare con la Caritas, ci troviamo a disporre di strutture che, data l’evoluzione dei bisogni e degli standard dell’offerta, rendono più faticoso proseguire l’esperienza di carità. Perciò le strutture hanno bisogno di essere ripensate e riposizionate sull’oggi, perché questa esperienza possa continuare e non sia condannata alla chiusura. Le strutture non chiudono, ma si rinnovano perché c’è ancora bisogno di rispondere alla domanda di chi si trova nella povertà.

Betania, struttura aperta da quasi 40 anni, ha una storia benemerita di carità e impegno. Perché si è arrivati alla decisione di trasferire il servizio in un’altra sede?

La struttura fisica dell’edificio presenta delle urgenze di intervento molto consistenti. Continuare ad usare così gli spazi può significare mettere in pericolo ospiti e operatori volontari. Avendo già una una mensa e un dormitorio maschile a Castello, perché non fare rete e ripensare a questa proposta trasferita là?

Non c’era possibilità alcuna di riproporre la sede storica di Betania rammodernata e messa a norma?

Questo avrebbe comportato un impegno economico molto rilevante e avrebbe portato la Caritas ad avere tre poli in centro storico: Piazzale Roma, Cannaregio e Castello, con tutte le difficoltà logistiche e di coordinamento conseguenti.

Quale sarà il futuro dei locali finora occupati dalla mensa Betania?

Restano in comodato alla Diocesi e saranno destinati ad un ampliamento dei servizi offerti dalla Casa studentesca Santa Fosca della Pastorale universitaria, oppure come abitazione per le religiose – le Suore della Riparazione – che di questo edificio sono proprietarie.

Ci sono stati, nei giorni scorsi, un incontro e un dialogo con i volontari di Betania per comunicare loro le novità. Cos’è stato detto?

Che la presenza dei volontari è la vera ricchezza, perché è il segno della Chiesa. Ai volontari è stato detto che il prosieguo dell’attività a Betania era fisicamente pericoloso e che la realtà della refezione verrà provvisoriamente ospitata alla Tana. Su Betania, inoltre, da sempre convergono volontari di tante zone della città: dalla Giudecca, da Dorsoduro, dal Lido…; per cui per qualcuno ci sarà certamente un disagio negli spostamenti, ma per altri ci sarà un avvicinamento. Per tutti c’è un cambiamento di abitudini, un sacrificio personale che consente però di rendere ancora più efficace questo servizio di carità. D’altro canto, già numerosi volontari hanno detto la loro intenzione di garantire la continuità: «È maggiore l’importanza del proseguire il servizio ai poveri, nella logica della gratuità», dicevano nei giorni scorsi, durante la Visita pastorale, alcune persone di Dorsoduro che da anni si adoperano per Betania.

Ma la Tana rimarrà sede di questo servizio?

Nei prossimi mesi la refezione troverà una nuova collocazione e una rinnovata modalità alle Muneghette, sempre a Castello. In quella struttura, di proprietà dell’Ire, che sostiene il nostro progetto, si vuole superare l’idea della mensa, preferendo organizzare e arredare dei luoghi di famiglia in cui consumare la cena.

Quando si andrà alle Muneghette anche la Tana dunque vi confluirà?

A livello di refezione sì: la Tana manterrà però il servizio delle docce e il dormitorio maschile. Alle Muneghette ci saranno sale da pranzo pensate come luoghi familiari, per condividere il pranzo. Inoltre ci saranno mini-alloggi per situazioni di difficoltà abitativa: persone da sole, che faticano a pagare un affitto, o che improvvisamente hanno bisogno di un tetto per periodi di 3-6 mesi. Sono parecchie già oggi le richieste in tal senso che ci vengono dalle realtà civili, dai tribunali e dagli assistenti sociali: domande a cui oggi non riusciamo a rispondere e che in futuro, alle Muneghette, vedranno soluzione. Infine ci sarà anche la possibilità di accogliere gruppi parrocchiali, soprattutto giovanili, che vorranno vivere esperienze di formazione nella carità.

Il Comune di Venezia collabora a questi progetti?

Il Comune ne è a conoscenza e ritengo ci accompagni con simpatia. E riconosce che è un valore per la città, perché integra il già ricco sistema assistenziale di welfare cittadino.

Betania è stata anche per molti anni casa di prima accoglienza per donne in difficoltà. E ora?

Il direttore della Caritas, il diacono Stefano Enzo, sta definendo il progetto pastorale per un nuovo luogo di prima accoglienza per donne, che sarà situato a Sant’Elena, dove abbiamo individuato spazi attualmente non utilizzati e chiusi, dove potrebbero trovare posto una decina di donne bisognose di una prima accoglienza, con un operatore Caritas stabilmente presente per garantire l’accoglienza e l’organizzazione del servizio. Su questo progetto vogliamo nei prossimi giorni coinvolgere la comunità locale di Sant’Elena. E proponiamo ai parrocchiani di Sant’Elena che siano loro stessi il volto della Chiesa per questa piccola realtà.

Quale sarà l’incidenza di questa casa nel quartiere di Sant’Elena?

Non ci sarà alcun tipo di incidenza: sarà un segno di carità ulteriore. Le signore saranno ospitate solo per la notte e partiranno dopo la colazione. Durante il giorno la struttura sarà chiusa. L’esperienza ci porta a dire che il mondo della povertà femminile, il settore toccato da Casa Santa Bakhita – questo è il nome che avrà la struttura – non ha zone di degrado forte come quella maschile. Spesso si tratta di persone disagiate e badanti che fanno servizio nelle case e che si trovano senza un letto per qualche notte.

Si è detto che a Sant’Elena ci sarà anche una struttura di accoglienza per donne vittima di tratta…

No, assolutamente. È vero che c’è un progetto per ospitare le donne vittima di tratta, ma verrà realizzato in un’altra zona della Diocesi, con la riservatezza che si deve a persone che hanno una storia delicata e difficile.

Veniamo a Mestre: Ca’ Letizia si trasferirà…

Ca’ Letizia, come Betania, è una testimonianza indiscutibile del genio e della carità cristiana in terraferma. Vogliamo però anche essere attenti al grido di tanti fedeli e di buona parte della società civile della zona, dicendo che vediamo anche noi i problemi che sono sotto gli occhi di tutti.

Qual è l’orientamento della Chiesa di Venezia, dunque?

Tutte le povertà vanno affrontate. Ma in questi decenni Mestre è cambiata. Non siamo d’accordo con l’idea di chiudere le mense, che non elimina il problema. Quest’estate la Chiesa di Venezia ha detto la sua disponibilità non tanto a spostare Ca’ Letizia – perché non è spostando che si risolve il problema – ma a ripensare quel servizio di carità nella zona della terraferma mestrina.

Cosa significa ripensare?

Che abbia sede in un quartiere meno urbanisticamente sensibile quale il centro di Mestre. Al contempo, che lo stesso servizio di carità – per il quale non si ringrazia mai abbastanza i volontari della San Vincenzo mestrina – sia pensato in forme nuove.

Che consistono in…?

In ambienti diversi. E nel fatto che prima di dare da mangiare desideriamo che si possa incontrare, ascoltare e conoscere le persone ospiti. Vuol dire che nel luogo della carità si accederà dopo aver incontrato un operatore che non solo darà la possibilità di consumare un pasto, ma ascolterà le persone e chiederà loro la disponibilità ad affrontare le difficoltà in cui si trovano, puntando alla loro soluzione e al reinserimento sociale.

Quindi?

Da quest’estate abbiamo offerto la nostra disponibilità di strutture, risorse e persone, disponibili a immaginare e a concretizzare questa rinnovata proposta. È una soluzione che deve vedere il convergere di tutte le istituzioni: la Diocesi c’è.

I tempi?

È prematuro parlare di tempi, perché si rischia di illudere le persone. C’è la volontà e tutta la disponibilità della diocesi di Venezia – ribadisco – a investire persone, strutture e risorse economiche.

E in via Querini, al Centro pastorale Papa Luciani, cosa succederà?

Ci sono strade che corrono tra loro parallele e che non fanno parte di un disegno complessivo. Lo spostamento della sede di Gente Veneta da via Querini a Venezia, per esempio, è frutto di una scelta dell’editore, la Chiesa di Venezia, per portare GV in un centro vitale della Chiesa veneziana che è il complesso della Salute. Non è stata spostata per svuotare un immobile, ma per valorizzare lo strumento di comunicazione sociale della Diocesi. In via Querini a Mestre, attualmente, sono operativi la mensa Ca’ Letizia e gli uffici della San Vincenzo mestrina, la sede di terraferma della Caritas con tutti i servizi compreso la Scuola di lingua e cultura italiana che sta per ripartire, il Consultorio diocesano Santa Maria Mater Domini, la Scuola di teologia Santa Caterina d’Alessandria e altre realtà di volontariato lì ospitate. Il Centro pastorale non è un luogo chiuso, ma frequentato e vitale. Ad oggi non c’è nessun progetto di vendita e alienazione, anche se l’edificio ha bisogno di una riqualificazione e un ripensamento; ma questo non è all’ordine del giorno.

C’è chi ipotizza che la Diocesi voglia vendere il palazzo di via Querini per pagare i 5,9 milioni di euro legati alla recente condanna per la riqualificazione del complesso della Salute a Venezia. È così?

Dispiace che si immaginino trame del genere. La condanna riguarda fatti passati che ci troviamo a gestire oggi. Su di essa è in corso un lavoro di consultazione degli organi di partecipazione della Diocesi; ci sono, inoltre, dei contatti con la Regione Veneto e, ovviamente, ci consultiamo con i legali. La Diocesi sta decidendo se ricorrere in appello o se andare al pagamento della condanna: se si riterrà, o se si sarà costretti a chiudere questo vecchio conto che ci troviamo sulle spalle, cercheremo di tirarci su le maniche e trovare le risorse necessarie. Ma sono due cose – via Querini e la condanna – non legate l’una all’altra, assolutamente.

Giorgio Malavasi

(da www.genteveneta.it e GV n. 38/2109)