Il Patriarca Francesco alla Messa del Crisma: “Riscopriamo la prossimità, la vicinanza, il calore umano. Non dimentichiamo che siamo preti per la gente”

S. Messa del Crisma

(Venezia / Basilica Cattedrale di San Marco, 1 aprile 2021)

Omelia del Patriarca Francesco Moraglia

 

 

Carissimi presbiteri,

il nostro pensiero affettuoso va a Papa Francesco che detiene la pienezza del ministero ordinato; a lui va il nostro costante ricordo nella preghiera!

Ciascuno di noi poi, in questa giornata dedicata al sacerdozio, vorrà ringraziare il Signore per esser stato chiamato, per pura grazia e senza proprio merito, al ministero presbiterale.

Ringraziamo i confratelli che ci hanno dato e danno una bella testimonianza col loro modo di vivere e di morire. Ricordo, in particolare, quanti il Padre ha chiamato a sé dallo scorso giovedì santo: don Aldo Cristinelli, don Guido Bucciol, mons. Angelo Centenaro, don Gianni Dainese, don Nini Barbato e don Guido Scattolin. C’è chi veramente ci ha edificato con la sua testimonianza e ci ha fatto crescere come preti e come presbiterio.

Ricordiamo anche coloro che hanno vissuto o vivono momenti difficili in ordine alla salute o al sacerdozio e questi, in modo particolare, portiamo ogni giorno nella nostra preghiera. Tutti ci affidiamo e affidiamo alla nostra Madonna della Salute che è per noi Madre sempre sollecita ed accogliente.

Desidero, infine, ringraziare ciascuno di voi per l’impegno profuso con passione ed intelligenza a favore delle comunità che vi sono affidate in un tempo così difficile. Vi dico il mio affetto e la mia vicinanza non solo per quello che fate ma, prima ancora, per quello che siete.

Conoscete, per esperienza quotidiana, le tante sofferenze che in questo anno di restrizioni hanno pesato e pesano in modo particolare sulle persone più fragili, sui malati, sugli anziani, sui bambini, sui giovani e sulle famiglie. Il prete – molte volte – è l’appoggio, è l’aiuto, è il fratello e l’amico perché in lui, comunque, si vede una paternità.

Rivolgo il mio cordiale saluto anche ai nostri diaconi e ricordo, con affetto, chi fra loro ci ha recentemente lasciati; nell’ultimo anno il diacono Giulio Saltarin e il diacono Franco Scantamburlo.

Esprimo la mia gratitudine al Signore poiché possiamo celebrare la Santa Messa Crismale, uno dei momenti più belli e significativi – guai se non lo avvertissimo come tale! – nella vita della Chiesa particolare.

L’uomo non vive di solo pane (cfr. Mt 4,4). Certo, ha bisogno del pane, altrimenti l’uomo muore. Ma ha bisogno anche di senso, ovvero l’intelligenza del vivere, la prossimità, l’affetto; sul piano della fede, il pane eucaristico che costruisce ed edifica la Chiesa. Il Signore ci fa la grazia di avvertire tali necessità – anche noi preti abbiamo bisogno di vicinanza, prossimità, affetto – per diventare pastori ancor più coinvolti nella vita delle persone e delle comunità.

Il Vangelo ci presenta Gesù, nella sinagoga di Nazaret, che si alza in piedi, riceve dall’inserviente (l’hazan) il rotolo delle Scritture (la meghillah) e legge: “Lo Spirito del Signore è sopra di me; per questo mi ha consacrato con l’unzione e mi ha mandato a portare ai poveri il lieto annuncio, a proclamare ai prigionieri la liberazione e ai ciechi la vista; a rimettere in libertà gli oppressi e proclamare l’anno di grazia del Signore” (Lc 4,18-19).

Queste ultime parole per noi, oggi, in tempo di Covid-19 e a causa dei conseguenti restringimenti delle libertà personali, risultano quanto mai attuali.

Siamo chiamati ad annunciare il Signore Gesù che dona lo Spirito Santo. Il dono pasquale di Cristo è dato alla Chiesa in particolare nel sacramento dell’ordine, in grado diverso, ai vescovi, ai presbiteri e ai diaconi. Lo Spirito Santo è per la remissione dei peccati, come risulta dall’incontro di Gesù risorto con i discepoli la sera di Pasqua (cfr. Gv 20,19-23).

Desidero dire una parola sulla nostra disponibilità personale di preti nei confronti dell’ascolto. Tale disponibilità è, già, una reale risposta a chi si rivolge a noi; attraverso di essa noi veniamo incontro alla domanda che ci è stata posta, anche se non ne abbiamo la soluzione.

Ricordo, in proposito, un episodio che riguarda il poeta e scrittore Rainer Maria Rilke. Mentre risiedeva a Parigi spesso gli capitava d’imbattersi in una donna che chiedeva la carità: “…i passanti gettavano un’elemosina nel cappello. La mendicante rimaneva imperturbabile, come se non avesse un’anima. Un giorno Rilke le dà solo una rosa. In quell’istante il suo viso rifiorisce. Per la prima volta Rilke si rende conto che anche questa donna aveva sentimenti. Lei sorride, poi scompare e per otto giorni non la vede più mendicare, perché le è stato donato qualcosa che è ben più prezioso del denaro” (J. Ratzinger – Peter Seewald, Dio e il mondo, San Paolo 2001).

Siamo, allora, invitati a riscoprire il linguaggio della “prossimità” e dell’”affetto” attraverso semplici segni che ci sorprenderanno per la loro efficacia.

Offrire una rosa è nella possibilità di tutti e, alla fine, conta più di molte parole e di molto denaro. Come preti, in questo tempo di mancanza di relazioni personali, siamo chiamati a scommettere sull’efficacia della prossimità, della vicinanza, del calore umano. Non dimentichiamo che noi siamo preti “per” la gente!

D’altra parte, quando nel ministero si persegue di fatto solo l’efficienza, allora l’efficienza diventa una mania, un appagamento della persona e, alla fine, si finisce – senza rendersene conto (ed è ancora più grave) – col diventare persone che stancano e annoiano il prossimo.

Non dimentichiamo quanto scrive l’apostolo Paolo: “Dio ama chi dona con gioia” (2Cor 9,7). L’evangelista Marco, invece, ci informa che Gesù di fronte alla misera offerta della vedova esclamò: “…ha gettato nel tesoro più di tutti gli altri” (Mc 12,43).

Dio ha criteri diversi dalla pura efficienza e funzionalità e Maria, il capolavoro della creazione, dal suo concepimento, fu piena e compiuta gratuità; da sempre è la piena di grazia, l’Immacolata.

Cari confratelli nel sacerdozio, fra poco rinnoverete le promesse dell’ordinazione. Viviamo tale gesto con un cuore che vuole amare.

Vi sarà poi la benedizione dei Sacri Olii che, per tutto l’anno, nella nostra Chiesa diocesana serviranno per amministrare i sacramenti del battesimo, della cresima, dell’unzione dei malati, dell’ordine. A questo proposito do a tutti appuntamento al prossimo 3 luglio, quando ci sarà l’ordinazione del nostro diacono Filippo.

Non si tratta – per quanto riguarda la benedizione degli Olii – di semplici riti o di gesti esteriori e parole che riecheggiano per alcune frazioni di secondo. Gli Olii – in quanto consacrati dal vescovo, che è garante dell’unità nella Chiesa particolare – attestano la comunione; si tratta così di un gesto ecclesiale che rimanda alla sinodalità. La liturgia poi è azione costitutiva della Chiesa che educa ed eleva il popolo di Dio, ossia i pastori e i fedeli.

Stiamo vivendo un cambiamento d’epoca e nessuno di noi è in grado di sapere oggi dove porterà. Siamo di fronte a una mutazione di paradigma e ci viene chiesto, quindi, un più umile ascolto della Parola di Dio per servire meglio i fratelli.

Urge la conversione; prima quella spirituale e poi quella pastorale che sempre consegue dalla prima; l’ordine non va disatteso perché senza la conversione del cuore non si dà conversione pastorale. La pastorale non è una scienza, ma una scelta che nasce dal cuore. Si possono eventualmente studiare delle “tecniche” pastorali, ma non la pastorale. Seguiamo l’indicazione del cardinal John Henry Newman – una delle intelligenze speculative più alte della sua epoca – che scelse come motto cardinalizio “Cor ad cor loquitur”, ossia solo il cuore parla al cuore.

L’invito è fare nostra la spiritualità biblica che contraddistingue l’intera storia della salvezza secondo il trinomio: “esodo”, “esilio”, “resto”. Si tratta di un cammino insieme personale e comunitario che siamo invitati ad intraprendere con fede ed entusiasmo.

Tutto ciò significa indirizzare se stessi e le proprie comunità – membra vive della nostra Chiesa diocesana – ad una spiritualità e ad una pastorale meno ripiegate sulle proprie aspettative personali e, invece, più concentrate su Gesù e il suo Vangelo. Tutto ciò, però, si potrà dare solamente se si partirà da un nuovo spirito che investe l’intero nostro presbiterio. Si tratta, infine, d’entrare tutti – fedeli e pastori – nello spirito di una “sinodalità” realmente vissuta, più che teorizzata.

Si evita, in tal modo, l’individualismo e il protagonismo che – nel presbiterio – sono terra fertile per il “clericalismo”, ossia la ricerca di sé.

Anche nell’ascolto della Parola di Dio si dà il rischio dell’autoreferenzialità e questo accade ogni volta che si “rinchiude” la Parola dentro la propria visione del mondo, ovvero dentro il proprio uomo vecchio che ci trasciniamo dietro per tutta la vita.

Sul piano teologico aveva affrontato la questione il teologo luterano Albert Schweitzer nel suo studio sulla “Storia della ricerca sulla vita di Gesù”, da lui curato prima di lasciare l’Europa ed andare a vivere con gli ultimi in Africa, a Lambaréné (nell’attuale Gabon). Il rischio è sempre lo stesso: trovare nel Vangelo quello che si era già deciso ci fosse, proiettandovi se stessi e la propria cultura o ideologia. Quante volte accade questo, Dio solo lo sa!

La profezia è tale solo se esprime il Vangelo, non un Vangelo mondanizzato e reso tale da un mondo diventato criterio di verità. Queste parole di Papa Francesco, tratte da Evangelii gaudium, sono oltremodo chiare: “La mondanità spirituale, che si nasconde dietro apparenze di religiosità e persino di amore alla Chiesa, consiste nel cercare, al posto della gloria del Signore, la gloria umana ed il benessere personale… Si tratta di un modo sottile di cercare «i propri interessi, non quelli di Gesù Cristo» (Fil 2,21). Assume molte forme, a seconda del tipo di persona e della condizione nella quale si insinua…” (Papa Francesco, Lettera enciclica Evangelii gaudium, n. 93).

Nessuno si senta toccato, ma neanche manlevato dal riflettere.

Commentando questo passo di Evangelii gaudium potremo dire che è facile sentirsi profeti mentre si sta solo andando a rimorchio della cultura sociale e politica del momento; alcuni se ne accorgono, altri no.

Per ascoltare la Parola di Dio bisogna – cosa non facile – liberarsi dai pregiudizi aprendosi alla spiritualità dell’“esodo”, dell’“esilio” e del “resto” fedele d’Israele (che è sempre minoranza), percorrendo la storia della salvezza in tutte le sue tappe. Così, con le nostre comunità, siamo oggi chiamati ad una difficile traversata del deserto; incominciamo con fiducia, come comunità ecclesiale, tale traversata.

Le parole che Henri de Lubac – teologo di spessore e uomo di vero sentire ecclesiale – pone all’inizio del suo libro Sulle vie di Dio rimangono attualissime, nonostante il passare dei decenni: “…ciò che sarà sempre più attuale è la testimonianza che Dio – di generazione in generazione – dà a se stesso attraverso alcune persone, le quali, non volendo essere che sue, fanno per ciò stesso ai loro fratelli e alle loro sorelle il Dono essenziale [cioè Dio]” (Henri de Lubac, Sulle vie di Dio, Edizioni Paoline, Torino 1974).

Dalla testimonianza dei due evangelisti Matteo e Luca risulta che Giuseppe di Nazaret – uomo fedele alla sua vocazione – ha saputo incarnare pienamente nella sua persona questa spiritualità dell’“esodo”, dell’“esilio” e del “resto” di Israele.

Papa Francesco, nella lettera Patris corde con cui indice l’anno di san Giuseppe, ne delinea la spiritualità con queste parole: “Tante volte, nella nostra vita, accadono avvenimenti di cui non comprendiamo il significato… Giuseppe lascia da parte i suoi ragionamenti per fare spazio a ciò che accade e, per quanto possa apparire ai suoi occhi misterioso, egli lo accoglie, se ne assume la responsabilità e si riconcilia con la propria storia. Se non ci riconciliamo con la nostra storia, non riusciremo nemmeno a fare un passo successivo, perché rimarremo sempre in ostaggio delle nostre aspettative e delle conseguenti delusioni” (Papa Francesco, Lettera apostolica Patris corde, n. 4).

Cari confratelli, credere non significa aver scelto una vita facile per sé e per gli altri e questo è vero soprattutto quando siamo chiamati (fa parte della nostra vocazione) ad essere guide per gli altri. Piuttosto, la fede s’esprime nell’atteggiamento di chi s’incammina verso Dio non perseguendo strade alternative, scorciatoie o comodi compromessi, ma affrontando ciò che Dio ci pone dinanzi, senza venir meno e con senso di responsabilità. E non trovando nel Vangelo quello che abbiamo già deciso che ci debba essere.

La risposta ad ogni vocazione (anche quella sacerdotale), precisa il Santo Padre, non ha il suo inizio nel gesto del sacrificio ma, piuttosto, nel dono di sé. Anche per questo in san Giuseppe non troviamo frustrazioni o recriminazioni ma fiducia e gioia.

Il Papa spiega che deve essere così per ogni vocazione e cita esplicitamente la vocazione al presbiterato in cui è richiesto tale tipo di maturità (cfr. Papa Francesco, Lettera apostolica Patris corde, n. 7). Intraprendiamo, allora, tale cammino che ci conduce là dove agli inizi neppure immaginavamo… Questo è, in sintesi, il profilo spirituale di Giuseppe di Nazaret, ossia l’“esodo”, l’“esilio”, il “resto” d’Israele.

Chiedo a tutti che spiritualmente e pastoralmente si valorizzi l’Anno dedicato a san Giuseppe. Affidiamo a Lui – l’umile e coraggioso falegname di Nazaret, che tutti ritenevano il padre di Gesù – la Chiesa che è in Venezia, il nostro amato presbiterio, il nostro amatissimo Seminario e tutte le persone provate e sofferenti a causa della pandemia in atto.

Con Lui e con Maria, insieme alle nostre comunità, guardiamo con realismo e con speranza cristiana a quello che possiamo fare per costruire una convivenza in cui tutto possa essere ripensato e costruito a partire da un’umanità che sappia tornare a gioire della propria creaturalità nel contesto di una creazione custodita ed amata.

Buon Giovedì Santo a tutti, buona Pasqua a voi, ai vostri familiari e alle vostre comunità!