“Amore, verità e preghiera: gli antidoti contro la mediocrità”, la riflessione del Patriarca Francesco oggi alla Messa del Crisma. E ricorda: “Sacerdoti e vescovo sono pastori ma rimangono sempre pecorelle del Signore”

“Il Giovedì santo è giornata sacerdotale e tempo favorevole per affidarci alla Misericordia del Padre, chiedendo perdono dei nostri peccati, della nostra inadeguatezza, dei nostri limiti; tutti avvertiamo la nostra mediocrità come qualcosa che ci limita e segna purtroppo il nostro ministero e quanti ne fruiscono”: è iniziata così la riflessione del Patriarca Francesco Moraglia durante l’omelia della Messa del Crisma (testo integrale allegato in calce) celebrata questa mattina nella basilica cattedrale di San Marco a Venezia insieme ai preti della Diocesi.

Citando anche alcune frasi dello scrittore francese George Bernanos, il Patriarca ha quindi proseguito: “Ma da cosa nasce la mediocrità? La risposta è: da un amore che ama molto sé e poco gli altri, dall’aver smarrito la verità nella propria vita, in primis nei propri confronti; mancanza d’amore e di verità verso Dio, verso il prossimo, verso di sé. La mediocrità si sconfigge nutrendosi della Parola di Dio. Amore, verità e preghiera: questo è l’antidoto contro la mediocrità. Un prete che ama con forza e intelligenza, e prega, sa riconoscere il bene ovunque sia e sa ringraziare Dio per chi è migliore di lui; è bello saper riconoscere che ci sono giovani o anziani, mamme o papà e anche confratelli migliori di noi, in cui c’è più generosità, semplicità, pazienza, fede e carità. Quando sappiamo riconoscere – anche con un po’ di fatica – il bene presente nell’altro, allora c’è il vero amore, la vera virtù, la vera umiltà, le condizioni per costruire non una virtuale ma una concreta pastorale condivisa, di reale comunione; allora si dà spazio al confratello, non ci si ferma più a dibattiti un po’ inconcludenti su questioni ecclesiastiche”.

Mons. Moraglia ha poi sottolineato l’importanza della guida spirituale nella vita dei sacerdoti e di ogni persona: “Noi preti, in quanto membri del popolo di Dio (in forza del battesimo), fruiamo per primi del ministero dei confratelli ed è vera grazia, per un prete (e anche per le persone che a lui si rivolgono), avere una guida saggia, un vero padre spirituale che non sia solo buono ma che sappia, al tempo opportuno e con prudenza, individuare le vie da intraprendere sul piano umano e sacerdotale. Noi preti abbiamo bisogno di un aiuto spirituale particolarissimo perché il nostro ministero ci chiede di prenderci cura degli altri, tanto nell’ordinarietà della loro vita quanto nei momenti più difficili e delicati per una persona, una famiglia, una comunità. Oggi il servizio sacerdotale è più impegnativo che nel passato e – come dice Papa Francesco – si svolge sempre più nelle periferie, non solo materiali ma spirituali. Chiediamo, quindi, al Signore che nel presbiterio fioriscano tali padri spirituali, un po’ monaci, un po’ missionari, persone di preghiera capaci di decidere ciò che è giusto nel momento opportuno, con coraggio e carità. Chi non decide sbaglia e mette in difficoltà chi verrà dopo di lui. Per tale paternità non basta l’efficientismo decisionale, non basta conoscere la teologia e neanche possedere una forte e calda umanità; ci vuole la santità che non si improvvisa e ci è data con la preghiera prolungata, affrontando la vita serenamente, senza spirito polemico o aggressività, sapendo perdonare e soprattutto stando alla presenza di Dio. E si tratta di vincere il protagonismo di chi cerca visibilità improprie o ha il complesso del primo della classe. Il presbitero e il vescovo, seppur in modi diversi, sono pastori ma – è bene ricordarlo – rimangono anche e sempre “pecorelle” del Signore; solo Gesù è vero e unico pastore. Avere consapevolezza che noi siamo, insieme, pastori e pecorelle del Signore, ci aiuta a crescere e a diventare più pastori, ad esserlo come Gesù ci vuole, plasmati di carità e verità, autorevoli quanto miti ed umili di cuore. La verità disgiunta dalla carità non è la verità del Vangelo, perché può diventare crudeltà; la carità disinteressata della verità non è più carità cristiana perché, alla fine, mente e inganna. Il criterio, allora, è il Vangelo anche nelle sue pagine difficili o, come oggi si sottolinea, non politicamente corrette; il Vangelo, se non si legge tutto, equivale a non leggerlo. Perché o la Parola di Dio ci trasforma o noi trasformiamo la Parola di Dio magari attraverso nostre personali esegesi che, alla fine, combaciano col nostro pensiero o con il pensiero dominante, con il politicamente corretto”.

Per il Patriarca “essere preti è una conquista continua e quotidiana, non facile, è impegno che dura tutta la vita; lo testimoniano quanti, e non sono pochi anche nel nostro presbiterio, l’hanno provato. Non è cosa facile, ma rende felici! È, quindi, essenziale per noi, ministri ordinati, essere fedeli al Vangelo che annunciamo. Le nostre parole e i nostri gesti generano vita? Tale domanda, oggi, nella Chiesa s’impone con grande serietà. Per essere fedeli al nostro sacerdozio dobbiamo fare attenzione a non essere preti loquaci quando parliamo agli altri e muti quando le stesse cose le dobbiamo dire a noi. Ripeto che noi pastori non possiamo dimenticare che siamo pastori ma rimaniamo anche e sempre pecorelle del Signore. Non possiamo, poi, parlare, di vita fraterna o di pastorale condivisa, prescindendo dalle scelte concrete e senza metterci la faccia… Cari confratelli, consideriamo bene il ministero della parola, curiamo l’omelia e prepariamola soprattutto con la preghiera. Ogni parola può essere parola di grazia, per noi e per gli altri, e di ogni parola detta o taciuta ci sarà chiesto conto. Predichiamo con l’esempio, dovunque siamo mandati, anche negli ambienti più refrattari: nel quartiere più difficile, a scuola, nel mondo del lavoro, negli ospedali, con le persone trasgressive, nell’arduo impegno di favorire la convivenza sociale senza acuire le divisioni, nell’evangelizzazione di strada, nell’affrontare le vecchie e nuove povertà.  Papa Francesco ci indica le periferie, materiali e spirituali come “luoghi privilegiati” della pastorale. Le periferie sono quegli spazi materiali e spirituali dove sono aperte le ferite profonde degli uomini e delle donne del nostro tempo; sono gli ambienti refrattari all’annuncio cristiano, dove è più difficile pronunciare il nome di Gesù e dove è più necessario farlo”.

“Siamo chiamati – ha concluso – a testimoniare il Vangelo, persuasi che il nostro mondo ha bisogno di Gesù più di ogni altra cosa, poiché Gesù è il progetto di Dio sull’uomo; è Gesù che contiene in sé la vera umanità, di cui il nostro mondo non sa d’aver bisogno perché non l’ha ancora conosciuto o l’ha già dimenticato. L’annunzio si fa con la parola, col comportamento e accettando d’esser minoranza, ossia di non contare agli occhi degli uomini. E noi preti siamo chiamati all’annuncio del Vangelo a prescindere dal risultato raggiunto, ossia accettando anche il rifiuto e, se del caso, il disprezzo. Non dimentichiamo, poi, chi ci ha preceduti sulla via dell’impopolarità e del rifiuto non venendo meno nell’impegno ad annunciare la verità anche quando si deve parlare su temi scomodi che non si vogliono nemmeno sentire enunciare. Sì, il prete è anche chiamato all’impopolarità che – è ovvio – non va ricercata ma, se necessario, va accettata; i numeri e l’audience non sono il criterio della verità o il criterio di riuscita del ministero o di un ministro (potrebbero, anzi, essere la sua condanna..). E questo lo dice la storia della salvezza che va avanti attraverso il “resto d’Israele”; il Vangelo è custodito proprio da minoranze”.

All’inizio dell’omelia, inoltre, il Patriarca aveva rivolto un saluto e ricordo affettuoso a Papa Francesco, “in attesa di poterlo incontrare”.