Camminare insieme, la sfida verso il Sinodo Giovani

La riflessione di don Michele Falabretti sull’esperienza del cammino che ad agosto coinvolgerà i giovani di tutta Italia: un’esperienza educativa che segnerà la crescita personale dei singoli, ma anche delle comunità e della Chiesa tutta. Verso il Sinodo dei Giovani.
giovani.chiesacattolica.it (13 novembre 2017)

Un Sinodo, per definizione, dovrebbe servire per non annegare nel “si è sempre fatto così”. Se sarà un buon percorso, potremo trovare nuove strategie pastorali.

L’idea di un incontro dei giovani italiani con il Papa ha sicuramente il sapore di un grande evento. Ma nello stesso tempo vorrebbe anche superarlo, provando ad elaborare un pensiero pastorale diverso. Di convocazione oggi c’è ancora bisogno: perché la fede non rimanga un’esperienza solo individuale.

Però il dispositivo di esperienze che si concentrano esclusivamente su giornate di massa è abbastanza improduttivo: finita la festa, gabbato lo Santo. Per questo il prossimo incontro dei giovani italiani con Papa Francesco sarà un momento più breve che segnerà il culmine di un cammino molto più radicato nei territori e dentro un’esperienza che vuole esplicitamente costringere gli educatori a farsi compagni di viaggio dei propri giovani. Fin quasi a confondersi con loro: camminare fianco a fianco, costringe a scambi e ascolti fatti di parole e silenzi. Così, forse, sarà davvero possibile favorire il protagonismo giovanile: mettendo sotto i piedi dei ragazzi una strada da percorrere, più che un palcoscenico dove esibirsi.

Possiamo leggere l’esperienza dell’educare come idea di un viaggio, di un cammino. Per non lasciarci imbrigliare dalla categoria di “normalità”: quando essa è una situazione in cui i giovani non si mettono più in discussione, diventano giovani-vecchi. Proviamo a fare qualche considerazione.

L’esistenza è un viaggio: è tanto più incisiva la proposta di un educatore se è alimentata da questa consapevolezza. È in questo viaggio della vita che si fa la scoperta di se stessi, si prende coscienza che questo esistere possa vere un senso e uno stile fatto di parole e gesti.

Ogni viaggio ha i suoi imprevisti, perché la precarietà è l’orizzonte del viaggiare. Ciò significa che non si deve tornare indietro solo perché le cose non vanno come si pensava. Che a volte gli imprevisti sono drammi, ma non sono mai la fine del mondo, se si vuole. Significa anche che la precarietà va insegnata. Non si deve far credere che tutto sia facile, ma piuttosto abituare presto ad affrontare le difficoltà e (è oggi tanto necessario) consegnare a ciascuno il peso della sua scelta.

Il bisogno di fiducia: prima di incominciare un viaggio bisogna credere di poterlo compiere. La fiducia è la scintilla iniziale. Senza questa si può tanto spingere la macchina, ma saremmo presto nuovamente da capo. Bisogna poi ricordarsi che spesso non basta una sola scintilla e soprattutto che questa serve proprio quando si è fermi.

Avere un programma: non si può intraprendere un viaggio senza sapere dove si va. La terra promessa per un giovane oggi deve essere la sua libertà. Piena, cosciente, matura… quindi in fondo mai raggiunta. Anche educare alla libertà esige metodo e comporta una particolare vigilanza alla persona e al progetto personale.

Il viaggio insegna la pazienza e l’umiltà. Ci sono persone che non sopportano l’idea di aspettare, così finiscono per comprare le fragole quando è il tempo dell’uva e l’uva quanto è il tempo delle fragole. Perdendoci in soldi e gusto. Ma nel viaggio della vita nemmeno i soldi possono comprare quello che il tempo ha provveduto oggi e domani. Se oggi c’è tempesta è temerario lasciare aperte le finestre: potrebbe scoperchiarsi anche il tetto.

Il viaggio è il luogo della ricerca, delle domande e non delle risposte. Quando viene la crisi, la prima naturale reazione è quella di aggrapparsi a qualche certezza. Si cercano soluzioni, risposte. Giusto. Ma guai a quelli soddisfatti dalle facili reazioni per contrasto: potrebbero trovarsi in una situazione peggiore.

Il viaggio è fatto di passi e ognuno ha il suo passo. Questo significa almeno due cose: che il viaggio è bello se procede, se si riesce a intravedere la tappa successiva; e poi che deve essere rispettato il ritmo personale. La sera, prima di coricarsi, il viandante guarda in controluce gli eventi e gli incontri appena trascorsi, si accorge del suo limite e della pesantezza delle sue gambe e si addormenta pensando al tragitto di domani. Sa di non essere il padrone del suo tempo, ma in fondo al cuore gli resta un profondo senso di pace.

Con l’esperienza del prossimo anno, ci auguriamo che accadano un po’ di queste cose. Che si riesca a coinvolgere un po’ di giovani (anche quelli più lontani), perché camminare a piedi è una sfida che sanno raccogliere. Che le equipe di pastorale giovanile vocazionale entrino in dialogo con il proprio territorio, favorendo l’intera esperienza del Sinodo. Che non si perda l’occasione di interrogare e formare gli educatori a un accompagnamento serio, capace di comprendere la dimensione ecclesiale della fede. Che si sviluppino alleanze nei territori: tra parrocchie, associazioni e movimenti; tra diocesi e regioni ecclesiastiche, perché tutti i nostri territori sono ricchi di possibilità ancora inesplorate. Che l’incontro con Papa Francesco spinga la Chiesa italiana a trovare comunione e a sognare una società riconciliata. È troppo? Forse no: potrebbe essere il minimo per chi sogna di educare ancora.