Marco Cè – Carità, la via migliore

La carità è partecipazione reale alla vita stessa di Dio. Quando amiamo,  facciamo qualcosa che non è nostro: noi partecipiamo alla vita stessa di Dio. L’amore, la carità, l’agape è vita divina in noi,  discesa dalla Trinità, versata nei nostri cuori, e dal nostro cuore risale a Dio e trasborda sui fratelli.

La carità è partecipazione diretta alla vita divina. Per questo la carità non cesserà.  Quando vedremo Dio, di fronte alla visione, la fede cesserà; quando avremo raggiunto la felicità, cesserà la speranza che è tensione  a qualcosa che ancora non c’è.  Fede e speranza cesseranno, ma l’amore non cesserà, perché l’amore è la vita stessa di Dio e quindi è destinata a durare sempre. È un’acqua che zampilla dal cuore di Dio e scende nei nostri cuori.

Leggiamo il cosiddetto “inno alla carità” (1 Cor 13, per il commento seguo Bruno Maggioni).

A chi si rivolge questo discorso di Paolo? È un  discorso altissimo, rivolto però a persone povere, fragili, deboli come noi.

La città di Corinto, ai tempi di Paolo, era  una delle metropoli più importanti del mondo, con circa 500 mila abitanti, città portuale, cosmopolita, dall’economia fiorente, dove non scarseggiava il denaro ma neanche l’immoralità, tanto che il verbo “corintizzare” serviva a bollare comportamenti piuttosto disinvolti; e “corinzie” erano le prostitute. Una città che molto assomigliava alle nostre metropoli moderne.

Con quale stato d’animo Paolo sia arrivato a Corinto, ce lo dicono alcuni versetti della stessa lettera.

Vi giunge dopo avere collezionato una serie di insuccessi. L’ultima tappa, ad Atene con il famoso discorso all’aeropago, finisce nel ridicolo e, quando parla di resurrezione dai morti, lo congedano dicendo: “Ti sentiremo un’altra volta”. Paolo se ne va mortificato e  si presenta ai Corinto,  scoraggiato  e scosso dagli insuccessi che ha raccolto.

 “Anch’io, fratelli, quando venni fra voi non mi presentai ad annunciarvi il mistero di Dio con l’eccellenza della parola o della sapienza. Io ritenni, infatti, di non sapere altro in mezzo a voi se non Gesù Cristo e questo crocefisso (cioè Gesù umiliato). Mi presentai a voi nella debolezza e con molto timore e trepidazione” (1Cor 2,1-3).

E anche a Corinto all’inizio la situazione è tutt’altro che favorevole, al punto che  quasi decide di andarsene. Ma il Signore gli appare di notte  (Atti 18,9-11) e gli dice: “Continua a parlare e non tacere, perché io sono con te e nessuno cercherà di farti del male, perché io ho un popolo numeroso in questa città”. Confortato da queste parole, Paolo continua a predicare e nasce una bella comunità cristiana, ricca di doni e di carismi e, proprio per questo, ricca poi di divisioni e contrapposizioni.  Ed è nel contesto di queste divisioni che Paolo riflettendo sui doni di ciascuno (1Cor 12) si domanda quale sia la via migliore: la via migliore è la carità. E introduce il discorso sull’eccellenza della carità, che ora leggiamo (1Cor 13,1-7):

“Se parlassi le lingue degli uomini e degli angeli ma non avessi la carità, sarei come un bronzo che rimbomba o un cimbalo che strepita; se avessi il dono della profezia, se conoscessi tutti i misteri e avessi tutte le conoscenze  e possedessi tanta fede da trasportare le montagne, ma non avessi la carità, non sarei nulla.  E se anche dessi  in cibo tutti  i miei beni e consegnassi il mio corpo per averne vanto ma non avessi la carità a nulla mi servirebbe.

La carità è magnanima, benevola è la carità, non è invidiosa, non si vanta, non si gonfia d’orgoglio, non manca di rispetto, non cerca il proprio interesse, non si adira, non tiene conto del male ricevuto, non gode dell’ingiustizia, ma si rallegra della verità. Tutto scusa, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta”.

La carità è paziente: la carità ha la forza di sopportare i torti, di non rendere pan per focaccia. La pazienza è una qualità di Dio che è lento nella collera – come dice la lettera ai Romani – e ritarda il castigo per dar tempo ai peccatori di convertirsi;

la carità è benigna. La benignità è l’attitudine di chi aiuta sorridendo, con tratto discreto, prevenendo il bisogno, senza far pesare la propria bontà,  piegandosi con umiltà verso chi è in difficoltà. Paolo qui ci ricorda che  la carità deve manifestarsi anche nel tratto esteriore;

la carità non è invidiosa: esclude ogni gelosia. La gelosia è divisione, mentre la carità è comunione;

la carità non si vanta. Il vocabolo greco sembra riferirsi a quella mancanza di misura alla cui base c’è un atteggiamento di leggerezza, di superficialità. La carità invece è seria, è prudente, ha il senso delle proporzioni, non è millantatrice;

la carità non si gonfia: non fa sentire il peso del suo gesto, del suo prestigio, di chi incede pavoneggiandosi. L’amore, invece, si pone a livello degli altri, si abbassa;

la carità non manca di rispetto. Il verbo allude al comportamento di chi manca di tatto e quindi ferisce l’animo del prossimo. L’amore invece è attento, rispettoso, discreto per non offendere la sensibilità, la dignità, la suscettibilità delle persone;

la carità non cerca il proprio interesse. Possiamo dire che questo è il centro della carità: essa imita il Cristo che non cercò di piacere a se stesso; il discepolo di Gesù deve dimenticare se stesso;

la carità non si adira: non è collerica. L’amore non perde il controllo di sé;

la carità non tiene conto del male ricevuto. La carità dimentica, butta via il conto;

la carità non gode dell’ingiustizia ma si rallegra  della verità;

la carità tutto copre:  non propaga il male degli altri, ma lo copre con il silenzio, con la discrezione. Quante volte invece si commentano con leggerezza difetti e debolezze delle persone!

la carità tutto crede: non perché è credulona, ma perché si fida e non diffida pregiudizialmente;

– la carità tutto spera: anche quando non si può negare il male, crede alla possibilità del ravvedimento, della conversione; crede che chi pure ha sbagliato può riscattarsi e fare il bene;

la carità tutto sopporta: anche quando le sue speranze sono smentite, la carità non si lamenta delle freddezze, delle ingratitudini, ma le sopporta.

 

Ma come avviene questo? È la domanda di Maria all’Annunciazione: “Come avverrà questo?” E l’angelo le risponde: “Lo Spirito Santo scenderà su di te”.

Possiamo noi essere capaci di amare come Paolo ci dice in questo inno? E questo come avviene?

Avviene perché, nel battesimo, nei nostri cuori viene infusa la virtù teologale della carità, come dice la lettera ai Romani (5, 5):”L’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori mediante lo Spirito Santo che ci è stato dato”. Nel battesimo, nella cresima, nell’Eucarestia, ci viene infuso lo Spirito Santo che è l’amore della santissima Trinità. Quindi l’amore di Dio viene infuso nei nostri cuori,  ci “cristifica”, ci trasforma nell’immagine di Cristo, ci fa agire come agiva Gesù, ci dà la possibilità di amare il Padre e i fratelli come amava lui, cosa di cui non saremmo capaci. L’amore non scaturisce dal nostro cuore perché noi, a causa del peccato originale, siamo tutti egoisti; ma l’amore viene riversato nei nostri cuori da Dio stesso mediante il dono dello Spirito Santo. E questo amore ci spinge ad agire come agiva Gesù, in due direzioni: l’amore per il Padre – e il compimento della sua volontà –  e l’amore ai fratelli.

Quando noi amiamo, partecipiamo alla vita trinitaria.  Noi cristiani abbiamo una ricchezza interiore che è infinita, immensa: dobbiamo scoprirla, goderne, ringraziare. Dio è presente in noi; il nostro amore è divino. Ne siamo coscienti?

Per questo la  santità consiste nell’amare Dio e i fratelli: noi siamo incapaci di amare, ma Dio ha infuso nei nostri cuori il suo amore. Dobbiamo metterci, nella misura in cui siamo capaci, su questa strada dell’amore: amare Dio, fare tutto per amore di Dio, anche le cose quotidiane della vita.

Ebbene, l’agire per amore è la strada della santità: amare gli altri. E questo ci costa, non è cosa facile, perché noi siamo tendenzialmente autoreferenziali, tendenzialmente pensiamo a noi stessi. Vero amore è uscire da noi stessi per proiettarci sugli altri, anche se non c’è rispondenza.

(Marco Cè, esercizi spirituali diocesani, Cavallino 30 aprile – 3 maggio 20)